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(RegioneInforma) NELLE GRANDI BIBLIOTECHE NAZIONALI, UNA PICCOLA PARTE DELLA STORIA LUCANA
29 giugno 2004
(ACR) - Nella vita di un monaco vissuto in Italia meridionale nel X secolo, San Fantino il giovane, si racconta che costui venne, all'improvviso, colto da un gran turbamento: simile a Geremia si aggirava levando alti lamenti, profetizzando la rovina che avrebbe colpito chiese, monasteri e libri; vedeva le une piene di asini e muli, gli altri in preda alle fiamme ed i libri inzuppati di acqua e inservibili. Tale visione della tragica sorte che avrebbe colpito i monasteri spaventò a tal punto il santo che egli, in seguito, si rifiutò di mangiare e bere e non ritornò più nel suo monastero ma si recò nel luogo in cui Dio gli aveva predetto che sarebbe morto. In effetti, la visione che avrebbe, secondo l'agiografo, causato la morte del santo, non era lontana dal vero se oggi chi si rechi a Carbone, alla ricerca di quell'antico monastero che, per tutto il medioevo, fu uno dei centri culturali dell'Italia bizantina, non trova null'altro che pietre. Prima di quanto possiamo costatare oggi, una conferma della preveggenza di San Fantino sul doloroso avvenire dei monasteri dell'Italia meridionale si può trovare nelle pagine di un diario di viaggio di un monaco del XV secolo, Atanasio Calceopulo. Costui, originario di Costantinopoli ma trasferitosi in Italia, nel 1457 viene incaricato dal papa Callisto III di fare una visita a settantotto monasteri nell'Italia meridionale, probabilmente su richiesta del cardinale Bessarione, figura di spicco per la diffusione della cultura greca nell'Italia del XV secolo e che, a sua volta, dal Papa era stato designato cardinale protettore dei monaci basiliani. Atanasio Calceopulo intraprende così, insieme a Macario, archimandrita del monastero di S. Bartolomeo di Trigona, un viaggio che incomincia da Messina nell'estate del 1457 per terminare a Roma il 4 Aprile del 1458. Nel suo diario di viaggio, il Liber Visitationis, descrive scenari spiacevoli sullo stato di alcuni monasteri visitati; a quell'epoca il monastero di S. Elia non era ancora in stato di abbandono. Il 13 Marzo del 1458, infatti, Atanasio giunge al monastero di S. Elia di Carbone e viene accolto dal monaco Placido che è da identificare con il Placido nominato archimandrita nel 1432 e da sei frati. Nel diario di viaggio viene fatto un resoconto sulla vita nel monastero, su cosa mangiavano e su come si vestivano i frati; si trova, inoltre, un'accurata descrizione del povero arredamento delle celle ed un elenco dei beni presenti nel monastero: oltre a vari oggetti di arredo, sono annoverati centodue manoscritti greci con l'indicazione precisa degli argomenti di ciascuno di questi. Non tutti i centodue codici visti da Atanasio sono andati perduti inzuppati dall'acqua, come nella spaventosa immagine che tanto turbava San Fantino; per sfogliare gli spessi fogli di pergamena di alcuni di quei libri bisogna varcare la soglia di porta Sant'Anna ed accedere alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Nel manoscritto numero 2005 del fondo Vaticano in tre fogli (fogli 10, 35, 65) sono commemorati gli archimandriti, abbastanza conosciuti di questo monastero, nei dittici dei defunti e in una preghiera (sul secondo foglio) sono menzionati i santi propri della Badia, Elia ed Anastasio. Dalla presenza di tali elementi si deduce che il libro fu scritto ed a lungo adoperato a Carbone; la preghiera, infatti, non è stata scritta dalla stessa mano che ha vergato l'intero manoscritto, ma da una mano posteriore e, dai suoi contenuti, si deduce appunto che fu scritta a Carbone. Il manoscritto contiene un eucologio bizantino, libro liturgico della chiesa greca con le solite tre liturgie di S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo e della Madonna; è costituito da centosei fogli di una pergamena di pessima qualità che si presenta molto spessa soprattutto nei fascicoli centrali che formano il volume. Fu copiato tra il 1197 e il 1211 in una scrittura molto rozza con pochi e poveri elementi ornamentali di tipo provinciale. Più che per il suo aspetto e il suo contenuto, tale codice è importante per una nota presente sul suo primo foglio: una mano diversa da quella del copista del codice ha vergato con una bella grafia di XVI secolo un nome: Io Marcello. Si tratta di una vera e propria firma, forse la segnatura di un revisore del manoscritto; il personaggio tuttavia non è stato, finora, identificato. Il dato interessante è che la presenza di tale firma su un codice che certamente fu prodotto a S. Elia di Carbone ci offre una prova per attribuire alla medesima libreria tutti quei codici in cui si ritrovi la stessa firma. In altri sei manoscritti conservati oggi nella Biblioteca Apostolica Vaticana si trova quel nome, in alcuni casi accompagnato dall'indicazione del contenuto del volume; questi sono, dunque, tutti da collocare nella libreria del nostro monastero e ciò è confermato dalla comunanza di contenuti (testi di sacra scrittura, di patristica, di agiografia, di liturgia ecc.), dalla scrittura in cui sono vergati e dalle varie forme di ornamentazione non figurativa. Tali manoscritti vanno analizzati, innanzitutto, come prodotti artigianali (attraverso l'analisi delle loro componenti materiali) e, poi, è essenziale indagarli quali portatori di un messaggio scritto, dunque studiarne contenuto, premettendo che, ovviamente, quando parliamo di "manoscritto" pensiamo non ad un qualunque tipo di scritto non stampato, di qualunque epoca e su qualunque supporto, ma ad un libro qual portatore di testo destinato alla circolazione e copiato da un amanuense. Ogni libro copiato a mano nasconde spesso tutto quello che riguarda la sua genesi, quando, dove e perché fu concepito; è, per usare le parole di P. Lemairle, un arcano archeologico. In tal senso il libro manoscritto prodotto a Carbone ci mette a contato con la Lucania di X e XI; è una piccola parte della storia della Lucania, dunque, studiare il sostrato socio-culturale che ha generato quei manoscritti, nonché le strade percorse per essere conservati, oggi, nelle biblioteche storiche. Nello specifico, quei sette libri appartenuti al Monastero di S. Elia, conservati oggi nella Biblioteca Vaticana, furono messi in salvo da Pietro Menniti, abate generale dei Basiliani. Costui nella metà del 1600, al ritorno da una visita alle abbazie basiliane dell'Italia meridionale, scriveva: è stato di grande afflizione per il nostro cuore vedere nelle case delle nostre province italiane, come tutto ciò che esse possiedono di carte di papi, re, imperatori e principi è abbandonato all'incuria dei religiosi, all'incuria della polvere e della putrefazione . . . così abbiamo deciso di riunire questi resti e tirarli dalle tenebre. In queste parole si fa riferimento a materiali di archivio ed, in effetti, Menniti riunì a Roma un fondo importante di Bolle e Diplomi provenienti dai monasteri dell'Italia meridionale (Carbone compreso); successivamente però, tra il 1697 e il 1699, svolse un identico lavoro anche per i manoscritti e così la maggior parte dei libri ancora presenti negli scaffali ormai tarlati dei monasteri dell'Italia meridionale fu trasferita nel collegio di S. Basilio a Roma. In testa al catalogo della sua collezione, P. Menniti precisava che i manoscritti provenivano da molti monasteri della Calabria e della Lucania, ma soprattutto dal Carbonese e dal Patirense (cioè dall'abbazia di S. Maria del Patire di Rossano, certamente tra i più importanti centri di produzione libraria dell'Italia meridionale nel medioevo). Nel 1786 questi codici furono comprati dal Papa Pio VI ed è questo il motivo per cui, probabilmente, oggi sono nella Biblioteca Apostolica Vaticana. I libri conservati in Vaticana non sono i soli manoscritti superstiti del nostro monastero; se ne possono identificare almeno trenta che oggi sono conservati nel monastero di Grottaferrata (anch'essi identificabili grazie alla presenza della firma Io Marcello), nella Biblioteca Ambrosiana di Milano ed altri andarono perduti con l'incendio della biblioteca Universitaria di Torino del 1904. Il loro numero è ovviamente inferiore a quello dei manoscritti elencati nel catalogo di Calceopulo (circa centodue) ed anche a quello che troviamo in un altro inventario sommario dei manoscritti di S. Elia redatto a Carbone nella seconda metà del XVII sec, prima del trasferimento a Roma della libreria del convento (circa ottanta). Nonostante questa disparità numerica, certamente quanto resta nelle biblioteche è una valida testimonianza del ruolo avuto dalla Lucania nella trasmissione della cultura greca – bizantina nel medioevo; in tal senso i depositi della Biblioteca Apostolica Vaticana avrebbero offerto un piccolo conforto all'angoscia di San Fantino, la sua visione non fu, tuttavia, così lungimirante. (R.C.)