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(RegioneInforma) L'ARTE ANTICHISSIMA DELLA LAVORAZIONE DELLA GINESTRA

24 settembre 2004

© 2013 - ginestra.bmp

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(ACR) - La lavorazione della ginestra è un'arte antichissima. Una tradizione millenaria che nei secoli non si è mai interrotta, come dimostrano i rinvenimenti nei vari scavi archeologici di pesi da telaio in terracotta. Oggi, però, di questo lavoro fatto di sudore, fatica e abilità manuale rimangono pochissimi esempi. Tra questi quelli del più piccolo paese della Basilicata, arroccato su quella grande montagna silenziosa che è il Massiccio del Pollino: San Paolo Albanese. Tra i vicoli e le campagne di questa zona, secoli fa (la data è tutt'ora imprecisata ma sembra legata alla fondazione del paese), è nata la tradizione della lavorazione dello Spartium iunceum, nome scientifico della ginestra, di quel filato dei poveri lì dove la lana era un prodotto d'elite. Un rito fatto di pazienza e fatica legato alla necessità di coprirsi. L'identità di San Paolo Albanese è anche questo e la popolazione del paese di tradizione arberesche ne è ben consapevole. Tanto da dedicare proprio alla lavorazione della ginestra una serie di iniziative ed anche una sezione del Museo delle tradizioni arbereshe. A fianco all'esposione degli spendidi costumi di origini albanesi che le popolazioni usavano ed usano per particolari ricorrenze come matrimoni o cerimonie, vi sono gli strumenti e le illustrazioni che indicano le varie fasi della lavorazione della fibre della ginestra. Quattordici fasi che ancora oggi, in qualche modo, riescono a raccontare un pezzo di vita quotidiana di quelle genti. Le fasi si alternano durante diversi periodi dell'anno ed iniziavano a marzo con la potatura. Unico lavoro eseguito dagli uomini con la ronca (rronkè) per il taglio. Tra luglio ed agosto, invece, seguiva la raccolta. Un compito affidato alle donne che per recidere gli steli utilizzavano le falci (drapi). Sul posto, poi, si faceva una prima cernita, scartando le parti non utilizzabili. I fasci raccolti, quindi, venivano trasportati in paese a spalla o a dorso d'asino. Il lavoro dei singoli, poi, diventava occupazione collettiva con l'incontro tra vicine di casa, nella «gjitunia» (uno spazio pubblico vicino le case) per preparare i mazzi (kokulat).Questi'ultimi erano bolliti in una grande caldaia chiamata kusia. Lasciati intiepidire si passava alla sfilacciatura ossia alla separazione della fibra utile dalla parte legnosa della pianta. La fibra utile, quindi, veniva raccolta in mazzetti denominati strumbilje e portata al fiume. I mazzetti venivano lasciati a macerare per otto-dieci giorni (due rami con cinque strumbilje ciascuno, corrispondevano alla quantità di fibra di ginestra che si ricavava mediamente dalla bollitura di una caldaia). Una volta ammorbiditi e sfilacciati dalle acque sul gretto del fiume, venivano battuti con un apposito bastone di legno (il kupani) e poi esposti al sole. Asciugati venivano ribattuti con un coltello per battitura (lo spatha). Bisognava, però, liberare dalle impurità e rendere soffice la fibra asciutta, così si procedeva alla pettinatura con un apposito attrezzatura chiamato krèhri. La fibra, però, doveva diventare filato così utilizzando rocca a mano e fuso (furnme e boshi) si arrivava al filo che attraverso la aspatura era raccolto in matasse. I filati erano grezzi, tutti di uno stesso colore. Era necessario candeggiarli e colorarli. Per la prima operazione veniva utilizzata la lisciva, per i colori, invece, si utilizzavano i prodotti della natura macinati e bolliti: il mallo delle noci per ottenere il marrone, la radice di robbia per arrivare ad un rosso rubino, l'euforbia o i fiori della stessa ginestra per il giallo. I filati colarati, quindi, venivano passati su un telaio di legno di abete o di cerro costruito artigianalmente (di di dimensioni standard che arrivavano ad una profondità massima di 167 centimetri ed una larghezza di 141 centimetri). Si formava un'unica serie di fili paralleli (secondo uno schema fisso specifico del tessuto da produrre) e si tesseva. Tipici i disegni, derivati dall'influenza bizantina ed albanese. Altrettanto tipiche le produzioni: dagli scialli alle tovaglie, alle coperte. Oggetti del corredo di generazioni di donne di San Paolo Albanese che sono andati avanti così. Queste antiche manualità che hanno il sapore della tradizione, oggi, sono quasi del tutto scomparse. Nel paesino albanese, però, vogliono fermare il tempo. Il museo è il primo passo, a cui seguono la realizzazione di alcuni corsi di formazione per quindici giovani del luogo (corso tenuto recentemente), la costruzione di un telaio che possa consentire la tessitura dei filati ed una serie di ricerche storiche sulla colorazione. «Le persone che perpetuavano questa antica tradizione - commenta il sindaco di San Paolo Albanese, Giuseppina Puzzi - sono andate man mano diminuendo tanto che oggi non rimasti in pochissimi. D'altra parte, è un processo molto faticoso, che richiede grande lavoro. Noi, però, intendiamo valorizzare e perpetuare questa tradizione e per questo abbiamo realizzato una serie di iniziative. La lavorazione della ginestra, quella delle icone, i riti religiosi ed i nostri costumi sono una diversità che noi non vogliamo perdere, ma tutelare». Insomma, un rito nato da una tradizione antichissima che, oggi, in quel paesino di 400 anime stanno cercando in tutti i modi di far rimanere attaccato alla trama della storia. (A.I)

Redazione Consiglio Informa

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