(RegioneInforma) I LUOGHI DI FEDERICO II, IL CASTELLO DI LAGOPESOLE
20 gennaio 2005
© 2013 - lagopesole_dongione_dle_castello.jpg
(ACR) - Un seguito numeroso ed eterogeneo con cavalli , ancelle e cavalieri abbigliati con foggia araba, di preziosi damaschi e sgargianti sete, ricchi corredi e casse colme di oggetti preziosi. Questo il singolare, ingombrante e scenografico "bagaglio" con cui l'imperatore Federico II viaggiava ogni volta che si muoveva in lungo e in largo per tutto il suo Regno. Non una reggia su un territorio, ma l'intero territorio che gli faceva da reggia: questo era per Federico II di Svevia il concetto di regalità, di sovranità. Per ogni punto nodale, un castello, e per ogni castello, una storia. Edificati dalle fondamenta, o più spesso ampliati, rimodellati, su fortilizi preesistenti, i manieri federiciani parlavano sempre del loro signore, ne esprimevano, con le loro mura possenti, la loro dominanza sul territorio su cui insistevano la fiera, indiscussa maestà. Oltre duecento, sparsi per tutta l'Italia Meridionale, i castelli che recano l'impronta del sovrano svevo, della sua eclettica personalità e della sua smisurata passione per l'arte e la caccia col falcone.
In tale politica architettonica, che fu sempre abile strategia politica, rientra anche il singolare castello di Lagopesole. Nel territorio che abbraccia il Monte Vulture, e che da quest'ultimo si lascia caratterizzare, ecco delinearsi la sagoma squadrata, liscia e patinata dalle luci del crepuscolo, del maniero. Quando la calura estiva si faceva insopportabile per rimanere nell'amata Puglia o nella natia Sicilia ( sebbene svevo per stirpe paterna , Federico non sentì mai né tantomeno coltivò la sua radice germanica), non c'era nulla di meglio che ritemprarsi al fresco dei boschi lucani, fra le spesse pareti dei castelli di Lagopesole o di Melfi. E poi lì, tra la macchia verde e le lussureggianti distese, lo svevo poteva praticare la sua grande passione: la caccia con il falcone. <>, scriveva Federico II nel suo trattato " De arte venandi cum avibus"( l'arte di cacciare con gli uccelli). E allora, se non Melfi, era Lagopesole il luogo deputato a svolgere tale amena attività ricreativa. Si alzava di buon mattino, attendeva il sorgere del sole, come se fosse un illustre ospite a cui concedere udienza privata, quindi indossava le sue vesti, sempre preziose e ben rifinite, e a cavallo del suo Dragone usciva seguito dai suoi uomini, libero come gli amati volatili, ma mai da solo.
Più o meno così doveva svolgersi una giornata tipo dell'imperatore quando soggiornava nelle nostre terre, e dimorava nei suoi castelli.
Quello di Lagopesole dunque era una riserva di caccia, più che un castello in senso letterale. Citato già nel VI secolo a. C. come stazione sulla via Herculea, tra Potenza e venosa, lo "Statio lacuspensilis", che prendeva il nome da un lago preesistente nella piana di Vitalba in età preistorica e poi prosciugatosi, rappresentava un punto nodale anche in epoca longobarda e poi normanna. E proprio di epoca normanna è quasi certamente l'impianto primigenio del castello, in seguito rimaneggiato da Federico II. Aver scelto un luogo lungo e stretto, che presentava vuoti da tutti i lati, costrinse i sui costruttori a pensare ad un'architettura che seguisse il declivio del territorio e su esso si modellasse. Ecco perché l'edificio si discosta in un certo qual modo dalla classica iconografia castellana: non vi sono le quattro torri, per mancanza di spazio, né le quattro ali interne. La presenza di due cortili, uno più grande e l'altro più piccolo, danno l'idea dei tempi diversi in cui il castello fu edificato.
Il lato Sud del cortile maggiore è delimitato da una cortina muraria entro la quale si apre una porta sormontata da un architrave. Da essa si accede al cortile piccolo, oggi ancora chiuso al pubblico, in cui si eleva il "mastio" o "dongione"
L'ingresso, a circa quattro metri di altezza, avveniva per mezzo di un pinte in legno, oggi chiaramente scomparso, e rappresentava una sorta di dependance, di residenza imperiale privata, lontana dagli immensi saloni adibiti al trono,agli Armigeri e alle altre ali di palazzo. Qui tutto doveva assumere una dimensione quasi intima, vicina a tutto il seguito, ma idealmente lontana.
Un effige a protome umana, su un a parete del mastio, raffigura un uomo e una donna. Lui, dai capelli lunghi e le orecchie appuntite, è Federico I il Barbarossa, nonno di Federico II, lei è Beatrice, sua seconda e amata sposa. La singolare forma che nel bassorilievo hanno le appendici auditive dell'imperatore è dovuta all'iconografia medievale, che in tal modo simboleggiava una lunghezza sovrumana della capacità del sovrano di arrivare ad udire ovunque, capace di cogliere tutto quanto si dicesse nell'impero ( se pensiamo all'orecchio di Dionisio, a Siracusa, comprendiamo bene quanto antica nel tempo sia tale raffigurazione del potere assoluto).
L'Imperatore dalle "orecchie d'asino"
Tanto deve aver alimentato la già fervida fantasia della tradizione medievale un' effige che ritraeva Federico Barbarossa con orecchie " da asino". Al punto che, in un' epoca in cui si faceva largo uso nelle raffigurazioni pittoriche e scultoree di esseri animaleschi a figura antropomorfa, chiunque fosse immortalato in tali fattezze, doveva avere per forza qualcosa di strano, magari diabolico. E così nacque la leggenda secondo la quale l'imperatore svevo, affetto da tale mostruosa diversità, ogni volta che doveva ricorrere ad un barbiere per spuntare la fulgida chioma o modellare la rossa barba, si affidava ad un malcapitato che, avendo suo malgrado condiviso con lui l'abominevole scherzo di natura, in genere coperto, veniva dopo aver prestato i suoi servigi, scaraventato giù, attraverso una botola, nelle viscere della terra.
Peccato che in realtà poco aveva a che fare Federico Barbarossa con Lagopesole: l'alone di mistero e l'aura di leggenda che ne accompagnano la figura, restituiscono al castello quell'immagine un po' fiabesca che la sua squadrata figura ha necessariamente sottratto. (M.R.)
Redazione Consiglio Informa