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(RegioneInforma) SULLE TRACCE DELLA DOLCE E SVENTURATA ISABELLA MORRA
15 febbraio 2005
(ACR) - Cala la notte, e il suo manto ricopre i tetti e disvela le stelle. La campagna riposa, e il mare da lontano placido distende le acque affinché in esse possa rispecchiarsi vanitosa e immacolata la luna. Ma il suo animo, gonfio di dolore, triste, ebbro di malinconia, è lì, prigioniera di un corpo, a sua volta prigioniero delle tetre stanze. Lei, la giovane Isabella, non riesce a dormire: lunghi, troppo lunghi sono i giorni, lente scorrono le ore, e non c'è riposo per un cuore in pena. Alla sua età si dovrebbe sorridere d'amore, si dovrebbe pensare al futuro che fulgido si profila appena distante. L'affetto delle gioia familiare, la sicurezza di un padre che amorevole le infonda tranquillità, di una madre che mentre le carezza il volto, le sappia trasmettere amore. Ma a lei, Isabella, nulle è dato di tutto questo. Un destino triste, un"adversa e spietata stella", non lascia che alcun "conforto entri nel tristo cor"di una fanciulla nata in un luogo selvaggio, lontano da ogni sfarzo, da ogni barlume di civiltà, dove solo l'ignoranza e la durezza di cuore crescevano sempre rigogliosi in tutte le stagioni. Lì, nella lugubre Favale, il sole non è mai abbastanza caldo da fendere il gelo che attanaglia l'animo dei fratelli di Isabella, e il vento non soffia mai troppo forte da strappare via l'amato padre dal suo luogo d'esilio e prepotentemente ricondurlo dalla sospirante figlia Isabella. E i suoi occhi, da quella finestra che apre alla vista del paesaggio e chiude alla speranza, ogni giorno di più, non sono mai stanchi di scorgere una nave, una barca, che avvicinino l'amato genitore e portino via per sempre l'angoscia. Che ogni cosa lugubre, aspra, selvaggia e triste, fuggano via da Favale, che l'odio abbandoni sempre la sua dimora e fugga esule in eterno, lontano da Isabella. Ma il destino aveva già scritto con i rubri artigli intinti nel sangue il tragico epilogo della sventurata fanciulla. Nessun amore, nessuna pietà, per un animo capace di volare via lontano, sulle ali della poesia, ma mai libero da una prigione costruita con le sbarre infrangibili forgiate dal rancore e temprate dall'ignoranza. Quella che un tempo era Favale, oggi è Valsinni, e quella che fu la storia di Isabella Morra, cinquecento anni fa, oggi è amaro ricordo e sublime poesia. Ma non solo. Come tutte le figure scomparse prematuramente, e anche tragicamente, anche quella di Isabella Morra ha visto crescere nel tempo l'alone di leggenda intorno a sè, e una curiosità primitiva all'inizio, un serio interesse poi hanno veicolato il nome di Valsinni un po' ovunque riecheggi quello della sua più illustre e sventurata abitante. Se quindi volete anche voi calarvi in quel " denigrato sito", come Isabella lo appellava in uno dei suoi componimenti, "sola cagion del mio tormento", e provare anche solo per un giorno a rivivere l'angoscia che dalle finestre del suo lugubre castello attanagliava il cuore della poetessa, non dovrete far altro che recarvi a Valsinni, situato nell'ampia area lucana segnata dallo scorrere dei fiumi Agri e Sinni, appunto, a circa quaranta silometri da Policoro. Arrampicato su un colle, dominato dall'alto dal suo lugubre castello, vi si delineerà dinnanzi il paese. Basterà quindi risalire la china dell'abitato, ed eccovi di fronte al maniero di origine medievale, secondo alcuni edificato su un precedente fortilizio longobardo. Si è in genere portati, quando si sente parlare di un castello, ad immaginarci una costruzione magnifica e altera, merlata magari. Ma allora, trovandosi di fronte a quello abitato dalla famiglia Morra, si rimane un attimo perplessi: l'edificio, certamente antico per fattura, si presenta oggi tal quale come doveva vederlo Isabella: tutt'altro che ameno, irregolare nel profilo, quasi a voler tacciare in cielo i picchi alterni di dolore e speranza che il cuore della fanciulla conosceva con il trascorrere dei giorni. L'aspetto un po' spettrale, inesorabilmente segnato dall'essere stato silente teatro di una delittuosa tragedia, prepara a quello che il visitatoti troverà al suo interno. I muri, le austere stanze, parlano di quei sospiri e il freddo che comunque spirava anche al tepore estivo. Negli ultimi anni, da quando la figura di Isabella Morra, barbaramente uccisa dai suoi fratelli perché rea a detta loro di atti adulteri con il nobile spagnolo Don Diego Sandoval DeCastro, potente vicino di feudo, in realtà sensibile come Isabella alla poesia, meno si è parlato del luogo in cui ella consumò la sua breve esistenza, svoltasi fra il 1520 e il 1546. Il Castello, residenza dei primi feudatari di Favale, i Morra appunto, fu edificato in una posizione strategica, nei pressi del tratto in cui il fiume Sinni, quel "Torbido Siri" di cui parla Isabella, restringe il suo corso, rappresentando un importante collegamento per chi volesse arrivare al mare. Ma il Castello svolse anche l'importante ruolo di baluardo dell'intera contea di Chiaromonte e dell'intero feudo che ricadeva sotto il controllo dei Sanseverino, i principi di Salerno che controllavano il feudo di Favale, e che come i Morra vantavano un'antica ascendenza normanna. E fu lì, tra quelle mura, in una notte in cui il cuore stanco di Isabella aveva trovato ristoro nella pace dell'odiato silenzio, che i quattro fratelli, convinti che l'ignobile sorella avesse intessuto una tresca amorosa con il nobile spagnolo, la pugnalarono senza pietà, ponendo fine all'esistenza di Isabella, che amava la vita, ma che non ebbe mai la possibilità di viverla, e che solo morendo potè trionfare sul suo miserevole fato. (M.R.)