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(RegioneInforma) «PIAZZA SANT'ANTONIO…QUANTI RICORDI» NELLA OPPIDO DEL PERIODO FASCISTA
10 marzo 2005
(ACR) - Quando la storia non si cancella si trasforma in scrittura : parole che tradiscono indimenticabili emozioni troppo spesso difficili da condividere. Partecipare la vita degli altri, i loro più intimi ricordi, pescati chissà dove, chissà come, ed esibititi come "scatti" della memoria è cosa ardua da fare. Tanto per chi in quella storia tenta di entrare, quanto - e in misura maggiore - per chi quel "fuoco" della memoria cerca di sviscerare. E questo è proprio quanto si propone di fare Antonio Maria Cervellino, scrittore-scultore di Oppido Lucano, con il suo «Piazza Sant'Antonio…quanti ricordi». La storia è piena di molteplici, infiniti tentativi compiuti da uomini inclini a pazienti ricostruzioni concernenti il passato, in costante lotta con gli inganni del tempo, uomini alle prese con non facili esperimenti immancabilmente ricadenti nella sfera emotiva e personale. Trasmettere "fuori" sentimenti propri, in grado di vivere a pieno solo nel proprio io, spesso soverchia le capacità umane. E non è detto che un'opera ritenuta valida alla fine lo sia per davvero. Certamente, però, l'amara consapevolezza di un'opera ardita rende ancora più dolce il suo epilogo, qualora questo corrisponda perfettamente al progetto che l'autore ha avuto in mente sin dall'inizio. Ed è proprio questa la sensazione che si avverte nel leggere il libro di Antonio Maria Cervellino. Diligentemente ricostruita con dovizia di particolari, l'opera si propone il solo e unico obiettivo di non cedere al declino di un tempo scandito da anni, mesi, istanti, fatto di passioni e tribolazioni e ricordi altrimenti persi per sempre. Perché se è vero che l'ingegno dell'uomo è riuscito a creare infiniti ultra-tecnologici congegni in grado di immortalare ineguagliabili momenti delle nostre vite, è pur vero che il racconto di questi il più delle volte rivela "paesaggi" nascosti negli anfratti oscuri della memoria. In apparenza il testo ripercorre una storia del periodo fascista, in realtà si racconta un'infanzia. I ricordi dell'autore si intrecciano ad avvenimenti collettivi arricchendosi, al tempo stesso, dello sguardo lucido e innocente del bambino che fu. Ricordi paradossalmente corroborati dal passare del tempo, sempre uguali a sé stessi e sempre più ricchi di particolari che, seppure futili a un primo sguardo, finiscono col rinforzare i colori di un'immagine antica destinata irrimediabilmente a sbiadire, a perdersi nelle pieghe del tempo. Erano i tempi in cui a Oppido incontrandosi ci si salutava con un «Gese Criste» (Gesù Cristo) e al quale si rispondeva con un semplice «Sempe» (Sempre). I tempi in cui la tessera al partito fascista era un dovere più che una libera scelta, in cui i pover'uomini avevano dalla loro doti non monetizzabili, ma altrettanto valide e pregiate di quelle degli uomini "dabbene" del circolo La Casina. I tempi in cui lo spirito di vocazione del piccolo Ninuccio, l'autore, ripiegò inesorabilmente davanti agli aneddoti di un tale Canio Saluzzi, il quale raccontava di certe drastiche mutilazioni alle zone genitali cui i sacerdoti venivano sottoposti. L'artista, inoltre, prendendo spunto da alcuni stemmi araldici presenti sui portali del centro storico si lascia andare a piacevoli digressioni. Sulla scia di immagini e ricordi della sua infanzia l'autore si sofferma sul palazzo De Angelis-Lancieri; il grande focolare della sala dei balestrieri che riscaldava le fredde giornate invernali; piazza Sant'Antonio e via San Michele, ben "scolpite" insieme alle bottegucce del tempo, come quella del barbiere meticolosamente ritratta fin nei minimi particolari (due specchi a spigolo, due poltrone e una panca d'attesa), insieme alla vita dei garzoni e ai mestieri dell'epoca. Così pure le passeggiate degli scolari al campo sportivo, le angosce di Teodosio e Vita Maria alla ricerca di abiti adeguati per la celebrazione delle proprie nozze o la serenata di tre giovanotti davanti a palazzo Zurlo a una misteriosa ragazza rivivono nelle pagine di Cervellino come piccoli ritratti di vita vissuta, brulicanti di inebriante quotidianità. È interessante come Cervellino, artista a tutto tondo, traendo spunto da qualunque piccolo e all'apparenza insignificante particolare riesca a delineare personaggi di spessore e a metterli in relazione con scene di vita vissuta. Ogni elemento, allora, diventa pretesto per richiamare alla mente una traccia del passato che l'artista-scultore riesce abilmente a materializzare mediante l'uso delle parole proprio come lo scultore fa con le mani. Ecco dunque venir fuori personaggi come il benevolo monsignore Donato Pafundi, i dottori Don Eduardo Grimaldi e Gaetano Lancellotti ed ecco la suadente voce del tenore Gigino De Rosa echeggiare tra le pagine. Per non parlare poi dei tantissimi personaggi del popolo: garzoni e innamorati, levatrici e contadini a fare da sfondo con la loro disarmante umanità. Tutto, insomma, sembra corrispondere al lucido disegno dell'autore di fissare per sempre le "immagini" presenti nel cuore suo, per non scordarle mai, e – ciò che più conta – per donarle agli altri, ai giovani "poveri" di ricordi, complice la loro età, arricchendoli di un passato che, in un modo o nell'altro, appartiene soprattutto a loro. (k.s.)