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(RegioneInforma) "ANDARE A LA MERICA": IL VIAGGIO, L'ARRIVO GLI INSEDIAMENTI IL LAVORO LE RIMESSE

11 luglio 2005

© 2013 - emigrazione_3.jpg

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(ACR) - "Ancora agli inizi del Novecento il viaggio per le Americhe poteva durare anche un mese, si compiva in condizioni di affollamento oggi difficilmente immaginabili, con conseguente riduzione al minimo degli spazi vitali e promiscuità. Gli emigrati, i cui alloggiamenti erano sempre nella parte inferiore delle navi, trascorrevano gran parte delle loro giornate a cielo aperto". Le cuccette degli emigranti erano ricavate in due o tre corridoi, con altezza variabile, ma inferiore ai due metri, e ricevevano aria attraverso i boccaporti, nei dormitori era frequente l'insorgenza di malattie, specialmente bronchiali e respiratorie. L'acqua potabile era tenuta in casse di ferro rivestite di cemento che, a causa del rollio della nave, si sgretolavano intorpidendo l'acqua che, venendo a contatto con il ferro ossidato, assumeva un colore rosso, ma era, comunque, consumata dagli emigranti. Quanto al cibo, era preparato seguendo una serie di alternanze costanti tra giorni "grassi" e "magri", e giorni del "caffè" e giorni del "riso". Quasi sempre anche sulle "carrette" del mare, la musica, suonata sull'organetto, accompagnava il canto di canzoni popolari, le cosiddette canzoni dell'emigrazione: la conosciutissima "Mamma mia dammi cento lire" o "Partono i bastimenti". Gli emigranti quasi sempre erano aiutati dalla "catena migratoria", che li guidava in ogni fase, dall'espatrio all'arrivo nel nuovo Paese. Nonostante ciò, appena sbarcati, cominciavano subito a rendersi conto di essere giunti nell'America così com'era in realtà, e non come l'avevano sognata. Infatti, "le immagini da paradiso terrestre di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovava scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti, specialmente se affetti da malattie invalidanti. A New York, i nuovi arrivati venivano trattati e contrattati come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. A questo stato di cose cercarono di porre rimedio le strutture assistenziali e caritative. Per diminuire le correnti migratorie furono varati diversi provvedimenti negli Stati Uniti. Ad esempio, oltre alle rigide norme sanitarie del periodo di quarantena a Ellis Island, nel 1917, venne approvato il Literacy test e, con il controllo dell'analfabetismo, si ebbe un'effettiva riduzione dei flussi dell'immigrazione. Dopo lo sbarco, si scopriva la dura realtà, il sudore e la fatica, e una profonda solitudine interiore, mitigata dalla vicinanza e solidarietà di connazionali e paesani, dalla condivisione di comportamenti, abitudini, modi di parlare e di far festa, tipici del Paese di origine. Sono nati così veri e propri villaggi e città dai nomi italiani, le cosiddette "Little Italy" dei grandi centri urbani americani, dove si condensava un patrimonio culturale comune, sospeso "tra le antiche radici e le nuove Frontiere". La chiusura dei Paesi americani dopo la prima guerra mondiale, e la perdita di attrazione dell'America Latina, fecero sì che, dopo il 1946, progressivamente l'Europa ridiventasse una meta preferenziale. I paesi di maggiore emigrazione italiana, verso l'Europa, furono, la Francia meta privilegiata, la Germania, la Svizzera, il Belgio, il Lussemburgo, e la Gran Bretagna. Gli emigranti, provenienti soprattutto dalle regioni settentrionali, erano per lo più ambulanti, venditori di stampe e figurine, merciaioli, coltellinai, suonatori ambulanti, agricoltori, minatori, cavatori e operai in possesso di un mestiere e ancora, venditori di gelati nella buona stagione e castagne arrosto in inverno. Con il passare del tempo, gli emigranti hanno "fatto fortuna", hanno aperto proprie attività commerciali; tanti i gelatai che trasformarono quella modesta attività ambulante sia in esercizi commerciali per la vendita di derrate alimentari importate dall'Italia che in bar e ristoranti rinomati. La vita sociale degli emigranti si svolgeva prevalentemente all'interno delle piccole comunità di appartenenza, famiglia, parenti e amici, compaesani, e prevedeva "riti comunitari" come le feste legate ai grandi avvenimenti familiari, dai matrimoni alle ricorrenze religiose. La vita delle comunità e dei gruppi paesani gravitava intorno alla cappella o alla chiesa, dove venivano "riprodotti" riti e cerimonie legate al culto dei Santi Patroni. La parrocchia, infatti, rappresentava un momento di forte aggregazione e, in tutti i paesi di emigrazione, si trovavano cappelle o chiese, dapprima costruite in modo semplice,di legno, poi divenute modesti edifici di mattoni, infine chiese costruite con pietre nobili, le quali riproducevano, in molti casi, gli stili delle chiese italiane e del paese di origine. Nei primi anni di consistente esodo, furono presenti correnti migratorie tutte al femminile, le balie e le donne di servizio. Fu abitualmente riservato a donne e bambini piccoli il lavoro a domicilio, gravoso e mal pagato. Si confezionavano fiori di piume, si rifinivano con asole e bottoni abiti e camice, si lavavano e stiravano panni, si preparavano pane e dolci da vendere contribuendo così al "mènage familiare". Poi, man mano, le donne hanno conquistato spazio nel mondo del lavoro fuori dalle mura domestiche. Infatti, dalle diverse esperienze migratorie nelle Americhe appare evidente l'evoluzione sociale della donna e del suo inserimento negli ambienti rurali e urbani. Per lungo tempo si è sminuito il peso della componente femminile dell'emigrazione, presentando di questa, un'immagine tutta al maschile. In anni più recenti, numerosi studi hanno mostrato che la partecipazione delle donne è stata rilevante e che non di rado sono state loro ad aprire la strada all'esodo. Oltre un secolo di emigrazione: in questa storia "italiana" si ritrovano i volti e i destini di persone e famiglie, di individui e comunità disseminati in tempi e luoghi di ogni angolo della terra. Molti non sono rimasti e sono tornati. E' tornato in patria oltre un terzo degli italiani emigrati, spesso l'integrazione era divenuta così faticosa da non lasciare alternativa al ritorno. Sono tornati perché non riuscivano ad adattarsi alla "novità" del paese straniero, oppure perché, alla partenza avevano come obiettivo il miglioramento economico e sociale nella comunità di origine, dove costruire la casa, acquistare la terra da coltivare, aprire un negozio. Sono tornati perché con l'avanzare degli anni si desiderava recuperare le antiche radici, vivendo una vecchiaia serena nel proprio paese. L'emigrazione ha sempre prodotto flussi costanti di risorse finanziarie, note come "rimesse" inviate dal paese in cui si produceva il reddito. L'emigrazione favorì nel paese ospitante maggiore produttività del lavoro e un affrancamento da condizioni di estrema povertà, si posero le premesse per una accumulo di risparmio con l'obiettivo di aiutare economicamente il proprio paese, molto spesso storicamente sottosviluppato. I settori economici che maggiormente hanno beneficiato delle rimesse negli anni 1920-1975 sono stati l'agricoltura, l'edilizia abitativa, l'artigianato, il commercio al dettaglio, il settore turistico extralberghiero. Dopo il secondo conflitto mondiale, in particolare, non c'è più aiuto finanziario episodico, ma accumulazione programmata e legata a una speranza di sviluppo del paese di origine. Gli Italiani, emigranti in ogni angolo della terra, nel corso di un secolo hanno lasciato un'impronta inconfondibile in tutti i mestieri e le professioni, hanno portato ovunque conoscenze, intelligenza nel lavoro, forza delle braccia, tenacia nella fatica, concorrendo con la loro opera e con la loro intraprendenza, allo sviluppo economico dei paesi di origine e di arrivo. Il loro apporto è stato fondamentale per il decollo industriale dell'Argentina e del Brasile, così come degli Stati Uniti, che rappresentano i casi tra i più significativi del contributo umano e tecnologico degli italiani nel mondo. (a.c.)

Redazione Consiglio Informa

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