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(RegioneInforma) MONOPOLIO RAI: TRA PLURALISMO E DECENTARMENTO (1)

12 giugno 2006

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(ACR) - In Europa la gestione del complesso mondo dei media, con i regimi totalitari prima e le moderne democrazie poi, è da sempre stata affidata al servizio pubblico attraverso interventi di enti e aziende private controllate direttamente dallo Stato. Nel vecchio continente lo Stato è, infatti, investito di un particolare ruolo educativo e di crescita culturale del Paese, esercitando, allo stesso tempo, un vero e proprio controllo su media e Tv, in particolare, dagli effetti, assoluti o limitati, sempre condizionanti e invasivi. In Italia i monopoli statali delle comunicazioni hanno trovato piena giustificazione nella base democratica e garantista del pluralismo, interno ed esterno, della Costituzione a fronte, da un lato, del rischio di concentrazioni oligopolistiche per la limitatezza della possibilità d'accesso o della scarsità delle frequenze radiotelevisive, e dall'altro, a fronte della volontà e necessità di creare una società culturalmente e linguisticamente omogenea. Dall'Uri (Unione radiofonica italiana, 1924), all'Eiar (Ente Italia Audizioni Radiofoniche, 1927), dalla R.a.i. (Radio Audizioni Italia, 1944), alla Rai (Radiotelevisione Italiana S.p.a.) motivazioni economiche sociali, culturali e politiche si sono intrecciate e rincorse alla ricerca di un qualche equilibrio evidenziando, sempre più nitidamente, che non poteva reggere a lungo il monopolio del servizio radiotelevisivo "polifemico" e chiuso nel ghetto nazionale-romano. Con gli stravolgimenti sociali e culturali dell'Italia del '68 i limiti del sistema centralistico cominciano a diventare evidenti: quando il punto di vista delle sinistre in fermento si posa fortemente critico sulla gestione centralistica e "democristiana" del servizio pubblico, quando le lotte nelle fabbriche e gli scontri di piazza per un'informazione democratica e contro l'autoritarismo mostrano quanto fosse superata la funzione unificatrice e accentratrice della Rai, quando le periferie chiedono al centro più voce ben al di là dell'arida informazione dei Gazzettini locali, ecco che appare in tutta sua profonda inadeguatezza lo Stato proteso nella sua funzione pedagogica e a difesa dal rischio di oligopoli privati. La Corte Costituzionale interviene nel 1974 con le sentenze n.225 e n.226 ribadendo la legittimità della riserva allo Stato e suggerendo di attribuire maggiori poteri al Parlamento nella gestione del servizio, di assicurare l'autonomia professionale dei giornalisti, di stabilire limiti alla pubblicità radiotelevisiva per tutelare la tradizionale fonte di finanziamento alla stampa. L'anno seguente il Parlamento approva la legge organica di disciplina del settore, la n. 103 del 1975 ("legge di riforma della radiotelevisione") sulla cui base viene eletto il nuovo Consiglio d'amministrazione espresso in larga misura dal Parlamento, si dà vita alla nuova organizzazione della Rai e si imposta un decentramento territoriale basato sulle 20 sedi regionali avviando il progetto della Terza rete. Poi, nel 1976 arriva la sentenza n.202 della Corte Costituzionale che infligge un colpo durissimo al monopolio del Servizio pubblico Rai, affermando il principio della libertà di impresa radiotelevisiva a livello locale e legittimando l'attività di trasmissione dei privati, sempre, a livello locale. L'etere comincia a popolarsi di centinaia di piccole emittenti private che avviano le loro attività radiotelevisive senza alcun tipo di autorizzazione o concessione: per tutti gli anni '70 il settore brancola in una vera situazione di anarchia, un periodo di a-regolamentazione, comunemente chiamato di "Far west", "caos dell'etere". Si fa strada un nuovo e più moderno concetto di pluralismo nella prassi sempre più diffusa di appropriazioni illecite di frequenze per emittenti private, radio e televisioni, che si moltiplicano e trasmettono libere a livello locale. Intanto, solo nel 1979, con la nascita di Rai Tre viene portato a termine il lento e complesso processo di attuazione di un'informazione pluralista, nell'ambito di una gestione comunque lottizzata del sistema pubblico, assicurando il pluralismo politico e culturale con Rai Uno e Tg1 di competenza prevalentemente democristiana e con Rai Due e Tg2 socialista, mentre attraverso Rai Tre e Tg3 è riconosciuto un ruolo anche al Partito Comunista. Ma la vera svolta della terza rete, consiste nel porre il problema del pluralismo ben oltre il punto di vista strettamente politico, ma ora anche territoriale, con la nascita dell'informazione pubblica locale. I centri di trasmissione e produzione radiofonica delle sedi Rai regionali, che operavano già dai primi anni '50, vengono potenziati e si evolvono nell'incontro con televisione e telegiornale e a partire dal 15 dicembre del 1979 le 21 sedi regionali sono tutte dotate di studio televisivo, macchine e personale per la ripresa esterna e per il montaggio: è il compimento di un sistema radiotelevisivo decentrato e pluralista affidato al servizio pubblico, capace di mettersi in collegamento con le realtà regionali e locali, di equilibrare il rapporto tra base e vertice, di offrire al cittadino un contatto con la sua realtà più prossima. Intanto a partire dai primi anni '80 molte delle piccole e pioneristiche emittenti locali preferiscono cedere le loro frequenze ad avvenenti iniziative imprenditoriali ben più consistenti che crescono, si alimentano e si concentrano su quelle finché nel 1981 scendono in campo i principali editori della carata stampata Rizzoli, Rusconi, Mondadori e l'imprenditore edile lombardo Berlusconi detentore di una minima quota del "Giornale nuovo di Milano". Di fronte all'evidente tentativo da parte di pochi soggetti privati di passare dalla dimensione locale a quella nazionale, la Corte Costituzionale interviene con la sentenza n.148 del 1981 con cui ribadisce sua propensione alla libertà di trasmissione a livello locale, ma fa intravedere la possibilità di ammettere una presenza dei privati a livello nazionale subordinando tale eventualità ad un organico intervento del Parlamento. Di fronte al perdurante silenzio del legislatore, attraverso la prassi sempre più consolidata della "cassettizzazione" si manda in onda quasi contemporaneamente in diversi ambiti locali e, contemporaneamente, si assiste all'emergere in posizione dominante, quasi esclusiva, del gruppo di Berlusconi. A dare una veste di legalità la situazione ormai consolidata, interviene, solo anni dopo, la legge Mammì (n. 223 del 1990): è, così, riconosciuta la presenza di due grandi gruppi, la Rai erede del precedente monopolio e Fininvest di Berlusconi che controlla tre reti; insieme Rai e Fininvest monopolizzano il 90% dell'ascolto, il 92% delle risorse pubblicitarie. Parallelamente la più permissiva normativa antitrust ha consentito ad un solo imprenditore di possedere fino a tre reti nazionali: quelle effettivamente possedute da Berlusconi. Da allora ad oggi né la Legge Maccanico (n.249 del 1997), né tantomeno la legge Gasparri (n.112 del 2004) sono intervenute a porre argini alla perdurante condizione di duopolio nel sistema televisivo italiano. (C.L.) (1 – continua)

Bibliografia:

  • Melodia A., "Teorie e tecniche del linguaggio televisivo", Aracne, 1999
  • Zaccaria R., "Diritto dell'informazione e della comunicazione", Cedam, 1998

Redazione Consiglio Informa

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