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(ACR) PRECARIATO NEI CALL CENTER: UN MONDO SENZA DIRITTI?

03 giugno 2008

© 2013 - call_center_1.jpg

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(ACR) - Ci fu un tempo in cui la modernità dei tempi aveva il volto di Charlie Chaplin, l'operaio alienato che continuava ad avvitare bulloni anche ben oltre la fine del proprio turno di lavoro. A far da sfondo alla sua vita la fabbrica di Metropolis, quella dell'alienazione, delle braccia abbarbicate alla catena e soprattutto delle officine della fatica. E se nell'epoca del post – fordismo delle sterminate concentrazioni di stabilimenti e capannoni nelle periferie urbane resta solo un fotogramma custodito dai libri di storia, non sono svaniti del tutto gli operai alla Charlotte. Non stringono più bulloni come 35 anni fa, non producono sempre plusvalore come voleva Marx, ma continuano ad esistere seppure sotto mentite spoglie: fanno magari le pulizie, stanno alla cassa di un supermercato o, assai più di frequente, rispondono alle telefonate degli italiani attaccati ad una cuffia in un call center. Già, perché la nuova classe operaia, edizione aggiornata all'anno 2008, è stata in gran parte arruolata tra le fila degli operatori dei call center. Tanto è ciclica, monotona ed ottenebrante l'attività alla quale essi cooperano. Svolgono, infatti, un lavoro altamente ripetitivo e che manca di prospettive e delle idonee condizioni ambientali, e subiscono quotidianamente pressioni di ogni genere, dalle ferie negate al consiglio di non ammalarsi, perché rischiano di non essere riconfermati, alle chiamate per Pasqua, a Natale e durante i festivi. Eppure sono i pezzi di UN business che si conferma tra i più avveniristici per l'agilità e la modernità del servizio in ballo. Cavalcando l'onda di una società che nel consumo trova la sua unica ragion d'essere, i call center sembrano destinati davvero a magnifiche sorti e progressive. Con passo di carica in direzione dell'allestimento di un servizio clienti si sono avviati davvero in tanti: dalle banche alle imprese (e non solo quelle solidissime), passando per i giganti delle telecomunicazioni e fino ad interi settori della Pubblica amministrazione, è incalcolabile il numero di enti e ditte che hanno trasformato il servizio clienti nella leva fondamentale della propria strategia aziendale. Assoconsumatori ha stimato in 250 mila il totale degli addetti del settore per il Belpaese, ripartiti tra circa 110 imprese che mettono in moto un volume d'affari annuo pari a ben 750 milioni di euro. Anche in Basilicata, regione dalle piccole dimensioni e dagli altrettanto piccoli numeri, il business dell'assistenza clienti ha piantato radici ben salde per dislocazione sul territorio e ancoraggio a marchi di punta, se non addirittura grandissimi.

Sfogliando i registri della Camera di Commercio di Potenza abbiamo scoperto che le aziende mappate nei registri dell'Ente relativamente al territorio regionale sono dieci, così raggruppabili per mission e collocazione geografica. Nel territorio della provincia di Potenza ne sono ubicate due che svolgono l'attività di call center in via secondaria (che effettuano, cioè, servizi al cliente per conto terzi) ed altrettante che svolgono la stessa attività in via primaria (nelle quali,cioè, il call center rientra nella rosa dei servizi specificamente offerti dall'impresa ai propri clienti). Analoga la situazione registrata per Matera e provincia dove sono tre le aziende che effettuano la stessa attività insieme con altre, e due quelle che la effettuano come core business. E sebbene, come ci spiegano presso la Camera di Commercio, per gli imprenditori non sussista in sede di ente camerale l'obbligo di dichiarare il numero dei dipendenti della propria azienda, tuttavia apprendiamo da una dichiarazione di massima da loro stessi resa allo stesso Ente che delle cinque aziende che effettuano il servizio di call center come attività secondaria una impiega tra i dieci ed i quindici dipendenti, altre due tra due e cinque, mentre le restanti due non hanno dichiarato alcunché. Mentre sull'altro fronte, quello delle cinque aziende che hanno proprio nel servizio clienti la propria mission, quattro non hanno dichiarato nulla, mentre una ha dichiarato di impiegare dai venti ai ventinove addetti.

Un settore importante e in crescita dunque anche per l'economia non proprio gigante d'una piccola regione che, comunque, non è rimasta immune dalla più vasta ondata di precarizzazione spesso selvaggia di un settore divenuto in breve tempo l'icona del lavoro usa e getta. Perché della flessibilità più spinta questo settore ha fatto la propria bandiera, la sua ragione di esistere, il motivo del proprio successo. Sin dal loro primo apparire i servizi clienti si sono confermati la patria della deregulation con lavoratori pagati male e a cottimo, dipendenti, a tutti gli effetti, ma contributivamente spacciati per liberi professionisti. Gli operatori, infatti, svolgono tutti lo stesso lavoro, fanno tutti la stessa cosa: rispondere a telefono. Ma c'è una sottile differenza. Ci sono gli operatori in outsourcing o outbound, e ci sono quelli che lavorano in house, cioè gli inbound. I primi sono coloro i quali alzano la cornetta per chiamare persone cui sottoporre domande e quesiti per indagini di mercato. Gli altri invece rispondono alle domande delle persone che telefonano e chiedono informazioni. E se l'attività dei primi può davvero far pensare ad una prestazione autonoma ed occasionale, assai più controversa appare la possibilità di incardinare in formule di esternalizzazione anche gli inbound. Alieni da tali sofismi, validi solo quando si tratta di distribuir mansioni, gli operatori, nella gran parte, sono considerati a tutti gli effetti degli autonomi, o con un acronimo abbastanza in voga dei Lap, cioè, "lavoratori a progetto". Secondo la discussa formula introdotta proprio dalla legge Biagi che, con il successivo decreto attuativo, il 276 del 2003, emanato dal precedente ministro del Lavoro Maroni, ha esteso anche ai call center (vedi l'articolo 62) la possibilità di usufruire del lavoro "a progetto". Così buona parte degli operatori si è trasformata in un'accolita di liberi professionisti, che prestano il proprio autonomo lavoro ad un'azienda per il tempo, e nella misura necessaria, allo svolgimento di un "progetto". Loro, i beneficati della new economy che dal nulla ha creato 250 mila nuovi posti di lavoro si ritrovano in tasca un contratto di lavoro in cui compare un comma, che ad un certo punto recita "gravidanza, malattia e infortunio sono causa di sospensione del rapporto di lavoro".

Insomma, autonomi a tutti gli effetti e, lo si sa, se sei un autonomo non c'è diritto che tenga e a ferie, malattie, e maternità provvedi da te. Salvo poi accorgersi che in realtà i conti non tornano. Perché a ben guardare di autonomo si scova ben poco in mansioni che hanno tutte le peculiarità del lavoro subordinato: dai vincoli di orario alla totale subordinazione gerarchica delle prestazioni tutte rigidamente predeterminate da parte della dirigenza aziendale negli orari, nelle gerarchie e nei pagamenti. Insomma, autonomi per ciò che riguarda certi diritti, ma dipendenti a tutti gli effetti per l'impossibilità molto pratica d'autogestirsi nell'attività produttiva. Tanto che dietro l'eufemistica definizione di "contratto a progetto" sembra celarsi spesso la precarietà completa del posto di lavoro. Un mondo che non manca di rivelarsi flessibilissimo a dimostrazione, se ancora ve ne fosse bisogno, del fatto che la "flessibilità" intesa come possibilità per l'azienda di mutare continuamente la propria forza - lavoro in relazione alle mutate condizioni del mercato non è il cuore del problema. L'oggetto vero del contendere è il costo della forza lavoro. Non avendo diritto né all'assistenza malattia né alla maternità né alle ferie retribuite essi costano all'azienda meno di dieci euro all'ora, mentre il lavoratore dipendente, per il quale le aziende debbono versare i contributi relativi a quelle prestazioni, ne costa circa 16. Per non parlare poi, sempre in fatto di retribuzioni, dell'ultimo paradosso che suona quasi come una beffa: i lavoratori corrono il rischio di non ricevere alcun compenso pur avendo lavorato per un'intera giornata: se non chiudi alcun contratto la retribuzione non te la sei meritata. Si chiama pagamento a cottimo ed è una formula tra l'altro vietata da quasi trent'anni (articolo codice 2121).

Un dato che illustri lo stato dell'arte del settore in Basilicata, che indaghi ed inquisisca su quanti sono, dove lavorano, di che tipo di contratti abbiano beneficiato gli operatori dei call center lucani, un inventario simile insomma, lo abbiamo cercato in lungo in largo, a destra ed a manca, ed alla fine ci è sembrato di poterlo riconoscere nelle registrazioni tenute presso i Centri per l'impiego della Provincia di Potenza. Luogo privilegiato dell'incontro della domanda e dell'offerta di lavoro i Cpi sono l'interfaccia indispensabile quando in ballo ci sia la stipula di un contratto di lavoro. Il dipendente per il quale si spalanchino le porte di in contratto di lavoro ha l'obbligo, infatti, di render noto al Centro per l'impiego della Provincia presso la quale risiede la durata la natura e le caratteristiche dell'incipiente attività lavorativa. Per effetto di questo monitoraggio istituzionalmente effettuato dai Centri consultandone gli archivi abbiamo riportato alla luce quanto segue: mettendo insieme i contratti a termine, interinali, di formazione abbiamo scoperto che i contratti stipulati nel settore call center nella Provincia di Potenza nel biennio che va dal 2005 al 2006 ammontano a 320, con l'avvertenza che si tratta di contratti, ma non di altrettante persone in carne ed ossa dal momento che censendo i Centri per l'impiego le attività lavorative va da sé che una stessa persona può essere stata beneficiaria di più di un contratto.

Negli ultimi tempi a testimonianza del crescente interesse delle istituzioni per un settore sempre più in bilico tra flessibilità e precarietà, sulla ribalta del settore hanno fatto irruzione due provvedimenti il cui uno scopo è portarvi ordine e regole certe nel tentativo di limitarne gli abusi contrattuali attraverso una marcia di regolarizzazione per tappe. Si tratta di una circolare indirizzata dal Ministro del Lavoro del precedente esecutivo, Cesare Damiano e indirizzata ai servizi ed una sentenza della suprema Corte di Venezia entrambe protese in direzione di un unico obiettivo: chiarire come d'ora in avanti non potrà più essere considerato lavoro autonomo l'attività di chi si limita a rispondere alle chiamate dei clienti (quella che i tecnici chiamano inbound): per tutti questi lavoratori la strada, seppur gradualmente, hanno affermato Damiano e la sentenza della sezione Lavoro dovrà esser quella dell'assunzione a tempo indeterminato. Mentre regole più elastiche e i contratti a progetto previsti dalla legge 30 continueranno ad esistere per l'outbound, cioè per l'attività di chi telefona a casa del cliente per ricerche di mercato, offerte promozionali ed altro. Riusciranno i nuovi strumenti normativi a tracciare una strada, la strada delle regole in un mondo dove sembra pur sempre dominare la paura di perdere il proprio posto di lavoro per precario e mal pagato che sia? (R.P.)

Fonti:

  • Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Potenza, "I precari dei call center e un futuro possibile", di Luciano Gallino in Repubblica, n. 25 agosto 2006 pagina 20 sezione: Commenti
  • "Call center, il girone dei nuovi Cipputi", di Barbara Ardu, in Repubblica, n. 25 agosto 2006, pagina 15 sezione: Economia
  • Ministero del lavoro e della Previdenza sociale, Direzione generale per l'Attività Ispettiva, Circolare numero 17 del 2006
  • Rapporto della Slc Cgil sulle stabilizzazioni effettuate all'indomani della Circolare Damiano disponibile sul sito del "Manifesto" alla voce "Assumi l'outbound", link "già stabilizzati"











Redazione Consiglio Informa

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