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(ACR) NATALE IN BASILICATA, QUANDO LA GASTRONOMIA DIVENTA CULTURA

16 dicembre 2009

© 2013 - piccilatiedd_.jpg

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(ACR) - "Strùffue e crispelle / nd'u piatte cch'i rusètte / dìcene n'ata vòta: / "l'è Natèhe"; // e u tìvine ca frìjete / ci pàrlete cc'u cèhe, / fè nasce tante voce / cchiù duce assèi' d'u méhe. […]1" ("Strùffoli e zeppole / nel piatto con le rosette / dicono un'altra volta: / "È Natale"; // e la padella che frigge / ci parla con il cielo, / fa nascere tante voci / più dolci assai del miele"). Così il poeta Albino Pierro riporta l'atmosfera natalizia nel suo paese d'origine, Tursi, nei primi anni sessanta del Novecento. E lo fa evocando la preparazione del dolce, una pietanza normalmente non presente nelle abitudini alimentari lucane – molto semplici e legate ai frutti genuini della terra – una pietanza riferita per lo più alle ricorrenze religiose. Il dolce, dunque, è simbolo di festa.

In Basilicata il rapporto tra cibo e religione è sempre stato molto vivo: numerose, infatti, sono le tradizioni gastronomiche e folcloristiche che affondano le loro origini nelle credenze religiose; e il Natale è la festa che più conserva, ancora oggi, i sapori, gli odori, il valore culturale di una volta.

Lo storico Mauro Padula racconta come a Matera, col passare degli anni, sia andata progressivamente scemando l'antica usanza religiosa delle "Nove Lampe", le nove lampade corrispondenti ai nove mesi di gravidanza di Maria, accese nove giorni prima del Natale, e spente veglia dopo veglia, fino alla vigilia della nascita di Gesù: "Prima che iniziasse la novena di Natale, ci si recava in Cattedrale a pregare dinanzi alla statua della Madonna della Bruna esposta per rinnovare il ringraziamento per la sua provvida assistenza nell'ormai lontano terremoto del 1857. Riportata la sacra immagine nella sua nicchia, il giorno dopo iniziava la novena di Natale come un qualcosa di tanto atteso. Questa funzione aveva anche il nome di "Nove Lampe". Ora non ne è rimasto che il ricordo, giacché l'antica caratteristica ha perduto gran parte del suo colore. […] La novena di Natale si è andata ammodernando e non in tutte le chiese essa si svolge con il rito e il tenore di prima. Principalmente si è perduta la devozione e l'entusiasmo mistico di un tempo. […] L'antica usanza era molto austera nella sua semplicità. Il primo giorno, il 16 dicembre, si accendevano nove lampade ad olio che venivano poste sui gradini dell'altare. […] Al termine di ciascuna funzione, si spegneva una lampada che il giorno dopo non si riaccendeva più. Ad una ad una, si riducevano fino al giorno 24 in cui se ne accendeva una sola. Al termine delle preghiere, anche l'ultima veniva spenta: si rimaneva al buio per pochissimo tempo, sufficiente però per creare il contrasto fra l'oscurità e la luce che riappariva con la nascita di Gesù Bambino"2.

Ma se c'è un settore rimasto molto legato al costume popolare del passato, è sicuramente la gastronomia: il rito che si ripete con più forza, decenni dopo decenni, è proprio quello della cucina. A Natale si riscopre il piacere di una tavola imbandita, il piacere di riassaporare i gusti di una volta, che appartengono alla propria tradizione culinaria. "La mattina della vigilia non vi era casa che non sentisse la festa", ricorda sempre Padula, "le massaie in particolar modo erano molto impegnate per la preparazione delle rituali pettole, impastate con maiolica ben lievitata. Dove il paiolo non poteva essere riempito di buon olio di oliva, pur di non venir meno alla tradizione, si giungeva, fra i più poveri, all'olio di stingi o, per intenderci, all'olio ottenuto dalla spremitura primordiale delle bacche di lentisco"3.

E la tavola è ancora oggi il luogo in cui la famiglia si ritrova, dove il profumo dell'antico continua ad inebriare i sensi. Un tempo, i nostri contadini mangiavano quasi sempre gli stessi cibi durante tutto l'anno e soltanto nelle feste solenni potevano vedersi sulle loro tavole qualche pietanza diversa, più ricercata e golosa. Non ci dobbiamo meravigliare, quindi, se aspettavano con tanta ansia il Natale e la Pasqua, per mangiare cibi più ghiotti, preparati con cura dalle nostre massaie. Il tradizionale piatto natalizio del contadino era il piccilatièdd', pane fatto in casa guarnito con le mandorle e decorato ai bordi con la pressione di una rotella dentata.

Lo storico potentino Raffaele Riviello descrive la preparazione del pane natalizio e l'aria di festa che aleggiava intorno alle laboriose massaie: "Attorno alla fazzatora (madia) una o più donne si ammoinano (affaccendano) ed affaticano a cernere la farina, a fiorarla, o ridurla in pasta. Attorno ad esse le giovinette stanno attente con tanto d'occhi ad imparare il modo e l'arte, mentre i piccinini (fanciulli) col moccio al naso si afferrano alla gonna della mamma, o con le manine si afferrano al labbro della fazzatora, sollevandosi e accorciandosi nella persona per vedere, o avere un pizzico di pasta da metterlo sulla brascia, e assaporare i primi bocconi dei famosi piccilatiedd'. E la povera mamma che si affatica, si dimena coi fianchi e con la schiena, batte coi pugni chiusi e li affonda nella massa della pasta, affinché questa cresca e riesca bene; e nel tempo stesso sgrida, minaccia, promette e dà ai figli un po' di pasta, perché la lascino libera, e stiano quieti. Che scena graziosa! Ma il momento più solenne e difficile è quando bisogna spianare e distendere la pasta per fare i piccilatiedd' e dare la forma tradizionale di rito. Allora si chiamano in aiuto le comari e le vicine più esperte, e l'una distende in largo cerchio di piccilatiedd' un grosso pezzo di pasta di tre o quattro chili dell'attuale peso, e quando vi è riuscita, facendo uso di tutta la valentia, prende svelta sulle braccia il piccilatiedd' e facendosi largo con la voce lo trasporta sollecita e attenta, ed anche timidetta, dalla madia alla tavola senza che debba guastarsi la forma e la freschezza, il che sarebbe un cattivo augurio per la casa; […] chi con una rotella di ferro o di ottone dentata detta sprone, orla a disegni il giro del piccilatiedd'; e chi vi infigge mandorle mondate con le punta in fuori; e ad ogni tratto dicono: ingraziamm' Dio per ringraziarlo più liete ad opera compiuta, augurandosi poi cent'anni cosiffatta ammoina di domestica allegrezza"4.

La vigilia di Natale i nostri antenati digiunavano tutto il giorno per poter meglio gustare lu piccilatièdd' al pranzo della sera. Verso sera, cessato lo scampanìo delle chiese, ogni famiglia si metteva a tavola. Il posto d'onore spettava al capo famiglia. Prima di cominciare a mangiare si recitavano come preghiere di ringraziamento il Pater Noster e l'Ave Maria, dopodiché il capo famiglia dava inizio al pasto serale della vigilia affettando il pane natalizio. Il pranzo serale proseguiva poi con vermiciedd' a agli e uoglie (vermicelli conditi con aglio e olio fritto) e, sulle tavole dei benestanti, c'era il pesce, cucinato a zuppa, fritto o arrostito. Per i più poveri, che non potevano permettersi di comprare il pesce, c'era il baccalà, cucinato in vari modi: a ciauredda (a zuppa con le cipolle, vi si bagna il pane), con i peperoni cruschi, a insalata con i peperoni all'aceto, oppure indorato e fritto. E ci si consolava con il detto "Lu baccalà pur è pesce".
La cena si concludeva con finocchi, frutta verde, e dolci fatti in casa, tutti composti di pasta lievitata e fritta: le zèppele (zeppole o crespelle cosparse di zucchero, con patate), gli struòfole (strùffoli, palline ricoperte di miele), le pettole (frittelle con o senza vincotto), cui si sono aggiunti, con gli anni, i mustacciuol au naspr' (mostaccioli ricoperti di glassa) e i cavzunciedd' (calzoncelli, ravioli fritti con cioccolato, crema di ceci o castagne). Ci s'intratteneva poi a tavola consumando frutta secca, mandorle, noci, fichi secchi, tanto per poter ancora berci su del buon vino: a Natale non si beveva il leggero e acido sottapera, ma il miglior vino della cantina. Quando poi s'udivano i primi rintocchi delle campane, la famiglia si recava, in gruppi, in chiesa per la messa religiosa della notte di Natale.

I piatti caratteristici del pranzo del giorno di Natale, invece, erano la minestra maritata e gli strascinari cu lu 'ntruppc (strascinati con l'intoppo, sugo con carne mista di maiale, vitello e salsiccia). Gli strascinati sono così chiamati perché vengono strisciati sulla cavarola, una tavola di legno rettangolare. La minestra maritata era un miscuglio di verdure selvatiche (scarola e verza), patate, carote, sedano e frattaglie di maiale in brodo. Come secondo piatto si mangiava un gallo o una gallina e, in mancanza di polli, conigli, carne di maiale e suoi derivati, come la savucicchia (salsiccia) e la custarèdda (costoletta). Tutti cibi caserecci. Non si pensava minimamente di andare in macelleria a comprare la carne. Il pranzo continuava, come per la vigilia, con frutta secca, dolci natalizi e tanto buon vino per lunghe ore, in compagnia del fuoco domestico. Nella più antica tradizione popolare, il fuoco rappresenta, infatti, l'anima della festa: nell'accensione del ceppo, che rimane sul focolare fino al Capodanno, si fondono due elementi propiziatori: il valore del fuoco, immagine del sole, e il simbolico consumarsi del vecchio anno con tutto ciò che di male vi si era accumulato.

L'arte culinaria lucana, a dispetto del trascorrere di secoli, è rimasta pressoché immutata: oggi, la sera della vigilia e il giorno di Natale, continuiamo a sederci in tavola per mangiare i piatti della nostra tradizione, a base di strascinati, baccalà, frutta secca, pettole e calzoncelli, accompagnati dal buon Aglianico del Vulture. In fondo, cos'è il panettone se non un piccilatièdd' contemporaneo? I sapori, come la cultura dei paesi, vengono da lontano, dal mondo contadino e pastorale, e hanno profumi particolarmente intensi che personalizzano da sempre la gastronomia lucana. Da ogni paese emerge il valore culturale dei fatti, usi e costumi che rivelano una ricchezza che a volte sbalordisce anche chi la conosce, e chi la sente nell'aria.

Le tradizioni alimentari locali e territoriali spesso rischiano di apparire come lingue morte, e invece racchiudono l'evoluzione e il percorso dei popoli. La gastronomia fine a sé stessa non è che un vuoto elenco di piatti e prodotti. La gastronomia consapevole delle proprie radici, che non le dimentica ma che porta sempre con sé, diventa cultura. Cultura di un popolo che conserva lo stesso sapore d'infinito dei propri antenati. (F. R.)

Note


  • 1 - Albino Pierro, "Metaponto", Garzanti, Milano 1982, p. 137.
  • 2 - Mauro Padula, "Natale a Matera", BMG, Matera 1979, p. 5.
  • 3 - Ivi, p. 6.
  • 4 - Raffaele Riviello, "Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino", Forni, Bologna 1970, pp. 113-116.


Fonti:

  • Leonardo Allegretti, Maria Schirone, "Il piatto lucano sulla tavola e nella storia", RCE, Napoli 1998;
  • Mauro Padula, "Natale a Matera", BMG, Matera 1979;
  • Albino Pierro, "Metaponto", Garzanti, Milano 1982;
  • Maurizio Restivo, "La cucina della memoria: cibi e tradizioni alimentari dell'antica Lucania", Ermes, Potenza 2000;
  • Raffaele Riviello, "Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino", Forni, Bologna 1970.

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