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(ACR) IL CARNEVALE LUCANO TRA ANTICHE E NUOVE TRADIZIONI
08 febbraio 2010
(ACR) - Probabilmente meno conosciuto, ma non per questo con una tradizione meno importante rispetto a quello di Venezia, Viareggio o Putignano, il carnevale in Basilicata si presenta ricco di maschere e miti che riportano alla memoria un mondo lontano, il mondo naturale e animale che popola antiche leggende.
Tradizionalmente il periodo carnevalesco inizia il 17 gennaio, giorno in cui si festeggia Sant’Antonio Abate (un proverbio lucano recita “A Sant’Antuon maschere e suon”), e termina alla vigilia del mercoledì delle Ceneri. In rapporto all’etimologia del termine, “carnevale” deriva dal latino “carnem levare” (eliminare la carne), che anticamente indicava l’abbondante banchetto che si teneva il martedì subito prima della Quaresima, tempo di digiuno e penitenza; per questo, nel martedì cosiddetto “grasso” culmina e termina allo stesso tempo la festa del carnevale, con un succulento pranzo a base di pasta fatta in casa e tanta carne di maiale.
Anche se fanno parte della tradizione cristiana, i caratteri della celebrazione carnevalesca hanno origini in festività ben più antiche che, come per le dionisiache greche (celebrazioni liturgiche in onore del dio Dioniso) e i saturnali romani (festeggiamenti in onore di Saturno), erano espressione del bisogno di un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo, alla dissolutezza. Il detto “Semel in anno licet insanire” (una volta all’anno è lecito impazzire), facendo cadere convenzioni e forme sociali, attualizzato vuol significare che “a carnevale ogni scherzo vale”. Insomma, quello che in altri periodi viene considerato sfacciato, nel tempo della festa è permesso, ed è sempre accompagnato dal divertimento.
Il primo segnale dell’arrivo della festa più goliardica dell’anno è dato dal fuoco. In molti centri lucani Sant’Antonio, protettore dei maiali, delle mucche, delle pecore e di tutti gli animali domestici, viene ricordato con l’accensione di grandi falò nelle piazze principali e davanti alle chiese. Dopo la benedizione dei parroci, è usanza portarsi un pezzo di tizzone a casa e continuare a farlo ardere nei propri caminetti, per buon auspicio. Il fuoco ha una funzione purificatrice dal male e propiziatrice per il futuro, e accompagna la festa fino alla sua conclusione, con il funerale e il rogo del fantoccio, ovvero la rappresentazione della maschera del carnevale.
Il tratto più distintivo della festa è appunto la tradizione del mascheramento. La maschera s’indossa per distaccarsi dal proprio volto e recitare la parte di un altro. E dal palcoscenico del teatro greco è passata ad avere un significato negativo, quello dell’ipocrisia e dell’inganno, ma anche quello della “vergogna”; da qui la necessità di “indossare una maschera”. Ma il significato più originale di questa è far ridere e allontanare gli spiriti maligni, è uno strumento con cui si può captare la forza soprannaturale degli spiriti e appropriarsene, per poi utilizzarla a beneficio della comunità.
Le maschere tipiche hanno origini, caratteri e storie diverse. C’è, ad esempio, la maschera veneziana civettuola e maliziosa (Colombina), e quella brontolona (Pantalone), quella bergamasca furba e stravagante (Arlecchino) e quella simpatica napoletana (Pulcinella), molte delle quali sono riprese nel teatro del Seicento e del Settecento. La Basilicata non ha una propria maschera regionale per così dire “nazionale”. Questo perché il tradizionale periodo carnevalesco è per i lucani un periodo propiziatorio, per cui ogni tipo di manifestazione serve più che altro a respingere il male e invocare gli spiriti benigni a proteggere il raccolto e il bestiame.
I primi mesi dell’anno, come si sa, sono molto freddi, e l’Appennino lucano presenta sulle sue cime molti paesi. Alcuni di essi sono al di sopra dei mille metri per cui la paura delle gelate è sempre forte; ed altrettanto si teme per eventuali nevicate. Quando queste ultime sono abbondanti mettono sempre a dura prova la resistenza degli animali che vivono nelle masserie isolate. La maschera lucana è quindi una sorta di stregone che combatte gli spiriti maligni. Il costume è quello tipico dei pastori. Ai piedi presenta i classici calzolari coperti da pelli di pecora intrecciate con lacci di cuoio, mentre sugli abiti pastorali un ampio mantello a ruota, che si lega sul collare nero di montone con un bottone di legno di quercia. In testa un enorme cappellaccio con una falda talmente ampia da far ricordare lontanamente i classici sombreri. Insomma, la maschera lucana è una sorta di antico pastore che, avvolto nel suo mantello e con la faccia nascosta nel cappello, si avvicina agli usci delle case e dice “Parate e paraticchio, dacci un capo di savcicchio, se savcicchio nun ci vuò da, n’altra cosa ci aia dà, se n’altra cosa nun ci vuò dà, ca t’ possa strafucà”. È la festa dei semplici. Non ci sono i ricchi, quelli abituati a divertirsi con le maschere cortigiane. In Basilicata al posto delle viole veneziane ci sono gli zufoli e i cupa-cupa (tamburelli), al massimo qualche organetto.
Anche le mascherate lucane, cioè i riti che accompagnano il carnevale, hanno origine agricola, e sono per lo più legate alla fertilità del terreno e al ciclo produttivo visibile con i primi raccolti successivi alla Quaresima. A questi sono da imputare alcuni elementi di sessualità che caratterizzano la ritualità di questo periodo, come quelli evidenti nel carnevale di Tricarico, dove i ragazzi travestiti da toro (in nero) simulano atteggiamenti aggressivi e gesti di monta nei confronti delle maschere da vacca (in bianco). Col tempo il corteo del carnevale di Tricarico, che sfila a suon dei campanacci, si è arricchito delle figure del “vaccaro”, del “massaro” e dei suoi aiutanti, rievocando così la transumanza, indispensabile per assicurare la prosperità del bestiame.
Anche a San Mauro Forte, gruppi di persone girano rumorosamente per le strade del paese con grossi campanacci di sesso maschile (più lunghi) e femminile (più larghi), che hanno funzioni propiziatorie, di fecondità per i campi e di sollievo dai malanni.
Ad Aliano si svolge invece la “frase”, una grottesca rappresentazione che vede sfilare, tra vie e contrade, giovani con in testa la “maschera cornuta”, rivestita da penne di gallo, completata da corna e lunghi nastri pendenti e con indosso i “cauzenitt”, nastri di cuoio da cui pendono campanelli di bronzo, finimenti di muli e cavalli. Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” descrive così la “frase”: “Venne il carnevale, inaspettato e anacronistico... venivano a grandi salti e urla vano come animali inferociti, esaltandosi delle loro stesse grida. Erano le maschere contadine... portavano in mano delle pelli di pecora secche e arrotolate come bastoni, e le bandi vano minacciosi e battevano con esse sulla schiena e sul capo tutti quelli che non si scanzavano in tempo”.
Il carnevale comprende anche elementi di lutto e pianto a carattere ludico, come a Cirigliano dove, tra i lamenti funebri del personaggio di “Quaremma”, ad accompagnare in processione la bara di Carnevale sono i mesi dell’anno, che sfilano insieme a pastori e preti vestiti di bianco.
Il carnevale di Satriano di Lucania, infine, è ricordato per la particolarità delle sue maschere: il “romita”, un uomo povero ricoperto di edera ma felice per aver mantenuto saldi i legami con la propria terra, e l’orso, l’emigrante arricchito vestito di pelli d’orso e di pecora; entrambi mettono in scena l’antico dramma dell’emigrazione. Il rito satrianese è considerato uno degli ultimi riti arborei sopravvissuti in Italia. I riti arborei sono legati, di solito, al mondo agreste e quindi a un’idea di fecondità intesa come continuità della vita tramite la prolificazione della natura.
La maschera lucana, dunque, ha una origine pastorale, come consono alla terra di Lucania. Anche i piatti tipici fanno parte della stessa cultura. Le consuetudini alimentari sono legate essenzialmente ai cibi invernali, particolarmente ricchi e grassi come la pasta fatta in casa, la carne di maiale ucciso pochi mesi prima, dolci fritti in abbondante olio o strutto. In particolare, la pasta fatta in casa (orecchiette e fusilli), considerata più genuina e nutriente, è accompagnata dal sugo con la carne di maiale, di solito salsiccia, ma anche pancetta e prosciutto.
Tipicamente carnevalesca è la “rafanata”, fatta con uova, formaggio, salsiccia e rafano, una radice aromatica piuttosto piccante, che matura in genere proprio nel periodo di gennaio-febbraio. Sulle tavole, infine, non mancano le chiacchiere (dolci a base di farina, burro e uova, fritti e cosparsi di zucchero vanigliato o miele) e il sanguinaccio, fatto con sangue di maiale cui si aggiungono mandorle e cioccolato.
Qualche decennio fa, a Potenza, i ragazzi nel giorno di carnevale si divertivano cantando per la strada il ritornello “Carnvale mij, chiène d’uòglie, stasera maccarone e craje fuòglie” (“Carnevale mio, pieno d’olio – cioè grasso – questa sera maccheroni e domani verdura”), che stava ad indicare il periodo di astinenza e di magro della Quaresima dopo quello di scialacquo della festa. Il martedì grasso la gente, dopo essersi divertita a ballare, cantare e fare scherzi mangiava e beveva insieme. A mezzanotte, dopo l’ultimo piatto di fusilli, si poneva fine ai festeggiamenti: la campana annunciava la morte del carnevale e l’entrata della sua vedova, la Quaresima. Ma la messa al rogo del carnevale era – ed è tutt’ora – un evento felice e duplice, di purificazione e di buon auspicio allo stesso tempo. (F.R.)
Fonti:
- Loredana Pellini, “Ripercorriamo le tradizioni del carnevale”, in “Il lucano magazine”, n. 2 (2006)
- Enzo Spera, “Il carnevale in Puglia e Basilicata”, in “La scena territoriale”, n.5-6 (1979)
- Enzo Spera, “La rappresentazione dei mesi in Basilicata”, in “Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera”, n.7 (1983);
- www.aptbasilicata.it.