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(ACR) LA LUCANIA, I CONFINATI E CARLO LEVI

22 aprile 2010

Sperduti e difficili da raggiungere, sono stati molti i Comuni della Basilicata che durante il Regime fascista hanno fatto della regione il luogo ideale in grado di accogliere perseguitati politici e non solo, provenienti da ogni parte d’Italia

(ACR) - Finivano qui, più che altrove, gli avversari del Duce, perché in questi luoghi potevano vivere isolati, e le province di Potenza e Matera ebbero il “privilegio” di accoglierli facendo guadagnare alla regione la dimensione di “un’isola di confino per la sua perifericità”.
Provenivano per lo più dal nord, ma anche dalla Calabria e dalla Campania, e appartenevano ad ogni categoria sociale e professionale. C’erano il contadino e l’artigiano, il medico e l’avvocato.
Dal gennaio 1928 al luglio 1943 - data in cui venne abolito il confino politico - nella sola provincia di Matera arrivarono 2.500 confinati politici e 190 confinati comuni o mafiosi. Per lasciare ancora ai numeri il compito di documentare quanto significativa sia stata la presenza di esiliati in Basilicata, si pensi ai 27 siciliani “definiti mafiosi” inviati in diversi comuni materani, quali Garaguso, Accettura, Montescaglioso, Nova Siri, Grassano, Grottole, Pisticci, Stigliano e Craco.
Che la provincia lucana fosse quasi la “prescelta” come terra di “confino” lo fa pensare il fatto che al precedente elenco di comuni si aggiunge quello che comprende Aliano, Montalbano Ionico, Pomarico, Rotondella, San Giorgio Lucano, Tursi e Colobraro. Proprio quest’ultimo, “poco servito da linee di comunicazione e lontano dalla ferrovia, costituiva in un certo senso il luogo ideale per accogliere i perseguitati politici e non solo quelli”, osserva in “Storie di confino in Lucania” Michele Crispino, peraltro originario del comune materano. Per poi aggiungere che “quasi sessanta persone tra confinati comuni e internati furono accolti nel comune di Colobraro per un periodo più o meno lungo”.
Ad alzare il numero c’erano i cosiddetti “sovversivi”, gli avversari considerati più pericolosi, e che prima di giungere in Basilicata erano stati rinchiusi nelle carceri delle loro città d’origine. In genere, la sorte di confinato spettava a quanti erano stati condannati per aver svolto un’attività tale da sovvertire, appunto, in maniera smodata, gli ordinamenti politici, economici e sociali facenti parte dello Stato, o, comunque, da recare danno agli interessi nazionali.
Non furono risparmiati dal dover offrire questa “nuova” forma di ospitalità anche i comuni della provincia di Potenza, “al punto da giustificarsi l’affermazione allora corrente di Lucania come terra di confino politico” - nota ancora Crispino.
A San Fele venne confinato l’economista e meridionalista Manlio Rossi-Doria che per la sua attività antifascista fu condannato a tre anni di esilio, passati anche tra Melfi e Avigliano.
Speciale colonia di confino, chiamata “colonia di lavoro”, fu Pisticci in seguito ad un particolare provvedimento delle autorità di Polizia di Roma. La collocazione rientrava in quello che oggi è il centro di Marconia ed accoglieva confinati provenienti da isole di deportazione come Pantelleria, Ustica, Lampedusa, Ponza. Sono stati almeno 1.600 gli esiliati, tra i quali si distinguevano anche molti internati, in gran parte stranieri. Si trattava soprattutto di artigiani: fabbri, falegnami, ma anche muratori e contadini. Per lo più persone “oscure”, come scrive Michele Crispino, gente semplice, della quale non si sentirà parlare in futuro.
Il 3 agosto del 1935 nell’albergo “Prisco” al n. 49 di Corso Umberto I, a Grassano, dal carcere di Regina Coeli arriva un uomo che di sé avrebbe invece fatto parlare, fuori e dentro la Basilicata, conquistandone a sua volta il cuore. Carlo Levi, il medico pittore, scrittore torinese nato da famiglia di origine ebrea, era indicato come un elemento di spicco nell’ambito del movimento antifascista torinese.
Quando arrivò in Basilicata era al suo secondo arresto (il primo lo aveva subito nella primavera del ’34 per la sua appartenenza al gruppo antifascista “Giustizia e Libertà”). In “Cronistoria di un confino. L’esilio in Lucania di Carlo Levi raccontato attraverso i documenti”, Angelo Colangelo cita un promemoria della Polizia Politica che a proposito di Levi diceva: “Da anni svolge un’attiva e subdola opera antifascista. Elemento intelligente e scaltro, sa abilmente mascherare la sua azione sì da essere difficilmente compromesso”. Fu quindi condannato a tre anni di confino nella “remota Lucania”, come la definisce lo stesso Colangelo, ma da un comune materano sarebbe poi stato trasferito in un altro, Aliano, a causa di una relazione extraconiugale mal tollerata dal fascismo.
Nessuno potrebbe mai pensare che il passaggio dalla Torino moderna alla Lucania povera, contadina, e ancora molto lontana da ogni forma di avanguardia, non avesse rappresentato un momento traumatico per il “dottor” Levi, eppure, lui seppe affrontare l’esperienza con tutt’altra filosofia. Perché se ne parla ancora oggi e perché, come confidava alla madre Annetta in una delle tante epistole dall’esilio: “Mi sono ormai totalmente dimenticato della prigionia”.
Attorno a sé Levi riuscì a creare una dimensione propria che si traduce nel fatto di aver prodotto proprio durante il confino lucano un buon numero delle sue opere. D’altronde Pia Vivarelli, storica dell’arte scomparsa nel 2008 e autorevole esperta dell’opera pittorica di Carlo Levi, spiegava come da un confronto parallelo tra la bibliografia relativa all’artista e il materiale dell’archivio della Fondazione Levi, fosse stato possibile raccogliere “la documentazione fotografica di sessantaquattro dipinti sicuramente realizzati a Grassano e Aliano”. Ed era egli stesso a sollecitare una lettura della sua opera attraverso “un nucleo di poetica maturatosi proprio durante il periodo del confino”.
Levi si ritrovava a parlare soddisfatto dei risultati pittorici nelle lettere inviate alla famiglia dai luoghi dell’esilio, dimostrando il suo legame con l’esperienza lucana anche quando, una volta finito il confino, non c’è stata mostra personale in cui l’artista non abbia riproposto gli esempi della produzione lucana.
Cambiano i luoghi, i paesaggi, i volti, e cambiano le tonalità abitualmente utilizzate da Levi pittore. Nella corrispondenza tra la madre e l’artista, questi si dimostrava consapevole del condizionamento che quel posto nuovo aveva su di lui: “... come il colore è più contenuto e modesto di quello che mi era abituale! Umili sono i colori di questa terra [...] e proprio in questa umiltà è la sua bellezza: ho dipinto ieri il primo paesaggio grassanese [...] e mi sono servito di una gamma di colori per me inusitata e che vi stupirebbe, che va dal giallo al violetto, senza conoscere né l’azzurro né il rosa”.
La convivenza tra Levi, la Lucania e i lucani, è stata regolata da rapporti intimi e intensi, di affetto e di rispetto. Innegabili, leggendo tra le righe di quello che il torinese scriveva alla signora Annetta. “E’ un’esperienza nuova che non avrei mai fatto altrimenti, mi si rivela un mondo veramente ignoto, lontanissimo da quanto siamo soliti pensare o vedere, con altre abitudini, altri sentimenti e pensieri, altro aspetto delle cose, delle terre, degli alberi, delle case. Per quanto riguarda gli uomini - riconosceva Levi - ora non posso che lodarmene: e credo che diventerò davvero un grande amatore e estimatore di questa gente di Basilicata”.
Non meno lusinghiero per un lucano è quanto scrive in una lettera indirizzata alla sorella Luisa: “… ti prego, ad ogni modo, di non stare in pensiero per me e di tranquillizzare mamma: qui io sto realmente benissimo”.
Non avrebbe potuto essere altrimenti per l’accoglienza che Carlo Levi ha ricevuto come uomo, artista e professionista. E’ ancora lui a raccontare: “Ora aspetto i bauli e le casse per iniziare il periodo grassanese della mia pittura (ho trovato anche qui persone che mi conoscevano come pittore) e trasformare i mali del confino nei beni dell’attività artistica”.
I lucani hanno saputo ben ricompensare, con una sorta di “devozione”, le speranze di quello “straniero”. I contadini malnutriti e debilitati dalla malaria si rivolgevano direttamente a “don Carlo”, come amavano chiamarlo, per lenire la sofferenza della malattia. Ma questo atteggiamento per quanto gratificante per Levi non piacque ai “colleghi” del paese che “per invidia”, a dirla con le parole di Colangelo, riuscirono a vietargli di continuare ad esercitare “l’attività medica gratuita”.
Il peggio per l’uno e per gli altri, per Levi e la “sua” gente, in realtà, arrivò paradossalmente al momento della “liberazione”, quando il Duce “assolse” dal confino undici antifascisti, e tra questi anche lui.
Commuove quasi provare a immaginare la scena in cui “don Carlo” si allontana da Aliano con al seguito gruppi di bambini e contadini in lacrime per quel ‘torinese buono’ che li aveva saputi capire e curare. Nel cuore prima che nel corpo. (A.P.)

Fonti:

  • V. Angelo Colangelo, “Cronistoria di un confino. L’esilio in Lucania di Carlo Levi raccontato attraverso i documenti”
  • Leonardo Sacco, “Provincia di confino – La Lucania nel ventennio Fascista”, Schena, 1995
  • Pia Vivarelli, “Carlo Levi e la Lucania. Diario pittorico del confino” da Basilicata Regione Notizie n.1-2 1998


Redazione Consiglio Informa

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