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L'ALBERO DELLA LIBERTA'
18 luglio 2003
Nel triennio giacobino la Basilicata fu protagonista di un diffuso movimento di repubblicanizzazione
(ACR) - La Basilicata, nel triennio giacobino, fu protagonista di un movimento di repubblicanizzazione molto diffuso, spontaneo e duraturo che nelle altre province, si trovò stretta tra le bande del Principato Citra e gli insorgenti delle Calabrie. L'istituzione di municipalità repubblicane, avvenuta tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, aveva sollevato anche qui episodi di rivolta, tra i quali particolarmente sanguinoso fu quello che portò all'uccisione del vescovo di Potenza Andrea Serrao. Ma nella maggior parte dei centri lucani le municipalità riuscirono a controllare i contrasti interni, peraltro senza alcun aiuto da parte dei Francesi. Anzi i Comuni di Tito, Tolve, Muro, Avigliano, Forenza, Picerno e la stessa Potenza resistettero fino all'ultimo contro le forze sanfediste che li incalzavano da tutte le parti. Le insorgenze ebbero motivazioni profonde, radicate nei precedenti sviluppi settecenteschi. Le rivolte dei contadini ebbero prevalentemente di mira quei gruppi di possidenza borghese che avevano nel corso del secolo costruito le proprie fortune con un'azione di lenta erosione dei feudi, dei demani comunali e regi e della proprietà ecclesiastica. L'esclusione dei gesuiti e la vendita dei beni dei conventi avevano significato l'instaurazione di un regime proprietario spesso molto più pesante, la perdita di mezzi di sussistenza e di strutture assistenziali, nonché, fatto ancora più grave, delle strutture scolastiche esistenti, che le scuole regie sostituirono in maniera inadeguata. Inoltre la borghesia provinciale ebbe atteggiamenti tutt'altro che unitari nel '99, anzi proprio allora si manifestò la tradizionale mancanza di coesione della borghesia terriera di provincia che riapparve nell'anarchia rivoluzionaria. Il caso di Andrea Serrao è tra i più significativi dei conflitti interni allo stesso fronte borghese. L'azione antibaronale da lui condotta fin dal suo arrivo nella diocesi contro gli arbitrii del conte Loffredo ne faceva sicuramente un punto di riferimento sia per i contadini, sia per la borghesia locale. Ma una reale coesione contadino-borghese intorno alla sua figura non esisteva: ai motivi di contrasto che più o meno potevano essere sollevati presso i contadini dello stesso barone, si aggiungevano le divisioni interne alla borghesia, fermamente decisa a difendere le proprie conquiste e le proprie usurpazioni contro quelle altrui e contro le rivendicazioni demaniali. I ceti proprietari apparivano disomogenei al loro interno anche per atteggiamenti, mentalità, formazione culturale. Basti pensare alla diversità, nell'ambito di una stessa famiglia, alla differenza tra lo stesso Andrea Serrao e i suoi fratelli, che furono tra i più attivi repubblicani a Filadelfia. In questa mancanza di coesione tanto culturale quanto sociale della borghesia provinciale va individuato l'aspetto più drammatico del '99 e al tempo stesso uno dei motivi principali di difficoltà di lettura delle sue vicende. Negli anni della Repubblica Partenopea si misero in atto i rituali giacobini. Innanzitutto, il piantamento della libertà, vero e proprio atto fondatore della Repubblica: l'albero, che era solitamente un pioppo o un pino, oppure un olmo, una quercia, un salice, un cipresso e a volte, nelle città di mare, poteva essere anche un albero di bastimento, adornato di nastri e della bandiera repubblicana e sormontato dal berretto frigio, veniva piantato nella piazza principale, tra danze e canti; le insegne e le bandiere regie venivano distrutte e al loro posto si inalberava la bandiera con i colori repubblicani, giallo, rosso e turchino, mentre si distribuivano al popolo le coccarde nazionali dello stesso colore. I repubblicani leggevano in pubblico parlamento i proclami e le istruzioni del Governo Provvisorio, un membro del clero interveniva a sancire con la propria presenza, e predicando ai piedi dell'albero, l'adesione dell'autorità religiosa al nuovo regime. La cerimonia repubblicana si concludeva con una solenne processione alla chiesa madre e la celebrazione del Te Deum. Ma quasi dappertutto, ai rituali giacobini seguirono, spesso, quelli dell'anarchia popolare. Il primo dei simboli repubblicani ad essere colpito era proprio l'albero della libertà, che veniva abbattuto, bruciato, a volte sostituito dalla Santa Croce; insegne, coccarde e bandiere repubblicane venivano distrutte e nuovamente sostituite dalle insegne regie, e di nuovo si celebrava il Te Deum, questa volta in onore della Monarchia. L'insorgenza, accompagnata dal suono delle campane a martello seguiva i ritmi e gli obiettivi propri della rivolta sociale: assalti e saccheggi alle case dei benestanti e possidenti del paese, repubblicani o presunti tali, assalti ai magazzini di grano, incendio degli archivi comunali, invasione dei demani feudali e delle terre demaniali comunali usurpate. Alla consacrazione religiosa della Repubblica data dalla partecipazione delle autorità religiose e dalla celebrazione del Te Deum seguì dappertutto la consacrazione religiosa dell'insorgenza, sia attraverso il nuovo Te Deum, sia portando in processione il santo patrono protettore della rivolta antifrancese e antigiacobina. In molti luoghi la rivolta si presentò quasi come una realizzazione di precise indicazioni dei santi, e come gran parte dell'Italia del triennio, anche le province meridionali furono investite da un'ondata di miracoli controrivoluzionari. All'abbattimento dell'albero della libertà si accompagnavano, in molti casi, violenze e uccisioni che si svolgevano anch'esse in base a propri rituali. Lo stesso albero della libertà, anziché essere subito abbattuto, divenne a volte luogo di esecuzione dei giacobini, uccisi e abbandonati per giorni ai suoi piedi. I racconti coevi abbondano di dettagli raccapriccianti e di episodi efferati: teste tagliate a colpi di accetta e poi lasciate sospese all'albero, o conficcate su picche e portate in corteo prima di essere esposte per giorni al pubblico ludibrio o fatte rotolare come palle per la strada principale del paese; cadaveri trascinati, scuoiati, dilaniati, a volte evirati, addentati, sbranati, con episodi di vero e proprio cannibalismo. Episodi, questi, in cui da un lato si manifestava una sorta di rivalsa sociale sui galantuomini giacobini, trattati nella morte, alla stregua di banditi, attraverso la pubblicità dell'esecuzione e dell'esposizione esemplare del cadavere alla pubblica infamia, spesso sul luogo del delitto; dall'altro lato, in particolare negli episodi di mutilazione e di sbranamento dei cadaveri, sembravano anche riemergere antiche pratiche sacrificali e magico-propiziatorie legate alla morte violenta. Nel caso del cannibalismo e del fegato abbrustolito e mangiato, riaffiorava la credenza nel permanere dello spirito e della forza nel corpo colpito da morte violenta per cui mangiarle significava appropriarsi di quella forza, e annullarla nel nemico. (A.R.)