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Il sogno americano di Charles Paterno
06 giugno 2013
La storia di un emigrante di Castelmezzano che a New York contribuì all’evoluzione dell’edilizia e dell’urbanistica. Fu il padre dei grattacieli e della città-giardino. Un libro di Renato Cantore racconta il piccolo miracolo compiuto da questo lucano
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(ACR) - L’emigrazione fu un male o un bene? Gli occhiali della storia ci hanno consegnato un’immagine nitida del fenomeno che portò via intere famiglie dall’Italia e dal suo meridione tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. La risposta al quesito non può essere univoca, essendo principalmente due i filoni di pensiero che le hanno attribuito funzioni e visioni diverse. Figlia di una povertà dagli inequivocabili tratti spietati, l’emigrazione non produsse solo spopolamento e emorragia di forza lavoro, ma anche opportunità di crescita per entrambi i territori, quello d’origine e quello d’approdo. Nel flusso non sempre ordinato della storia, il fenomeno venne osservato con chiavi di lettura diverse. I più eminenti meridionalisti, Fortunato e Nitti, considerarono la questione “una necessità ineluttabile, l’unica grande salvezza di un paese privo di risorse e ferace di uomini”1, cui faceva eco un altro grande intellettuale, Ettore Ciccotti, che parlava invece di “sciopero immenso, colossale”2 responsabile delle enormi distese di campi incolti e abbandonati. Quale delle due versioni sia giusta nessuno è in grado di dirlo, solo i fatti realmente accaduti e le vicende legate ai singoli episodi possono dare ragione all’una o all’altra scuola di pensiero.
Sui solchi delle “vie dell’avvenire”3 tracciati lungo le rotte dell’oceano, uomini donne e bambini imbarcavano i propri sogni nella speranza di una vita nuova. Su una di queste carrette del mare, in una livida mattinata d’inverno del 1883, salì a bordo Giovanni Paternò da Castelmezzano (foto 01). La sua scelta fu dettata dalla necessità di cercare altrove ciò che mancava nel proprio abitato, la felicità di vivere una vita senza affanni, la necessità di assicurare un futuro alla propria famiglia. Una famiglia numerosa tirata su insieme alla moglie Carolina (foto 02), una donna forte e determinata, con cui si unì in matrimonio il 25 dicembre del 18724 (foto 03). Un’unione che resistette alle intemperie della vita, e che si arricchì dei sette figli Celestina, Saverio, Canio, Giuseppe (foto 04, 05, 06, 07), Michel, Anhony e Christina (questi ultimi tre nati in America). Il sacrificio pagato da Giovanni, semplice muratore avviato all’attività edilizia dal padre Saverio, fu ampiamente ripagato dall’impero che i propri figli seppero costruire in quell’America tanto agognata e tanto temuta.
Dei Paterno troviamo traccia nella rivista mensile illustrata La Basilicata nel mondo (foto 08) di Giovanni Riviello, nei cui quattro numeri sono riportati ampi articoli dedicati ai membri di questa famiglia del sud Italia. In particolare viene riportato il protagonismo di questi imprenditori, di cui vengono messe in luce le qualità tipiche degli esuli italiani: intelligenza, tenacia, perseveranza. Ma soprattutto la voglia di affrancarsi dalla condizione di poveri emigranti, un marchio che tanti, troppi meridionali, si portarono dietro per tutta la vita. Non fu il caso dei fratelli Paterno (foto 09) che nell’America contagiata dal “mal della pietra” costruirono un vero e proprio impero del cemento, contribuendo all’evoluzione dell’edilizia e dell’urbanistica newyorkese.5
Una storia riportata alla luce da una recente pubblicazione curata dal giornalista Renato Cantore (foto 10), Il castello sull’Hudson. Charles Paterno e il sogno americano, Rubettino editore, 2012 (foto 11), in cui l’autore ripercorre le tappe di una storia che man mano che procede assume il sapore di una favola. Dal piccolo borgo abbarbicato sulle Dolomiti lucane, la famiglia Paterno’ prende le vie dell’oceano, dove pian piano, mattone dopo mattone, scrive la propria storia nel cuore di New York. Una leggenda che reca il nome di Charles Paterno, ossia di Canio Paternò, partito a soli sette anni insieme ai fratelli e alla madre, alla volta della “Merica” dove ad attenderli c’era il padre partito due anni prima. Il nuovo nome assegnato dall’America al nostro conterraneo fu il primo tributo che questo personaggio, insieme alla sua famiglia, dovette pagare per fare il proprio ingresso nella nuova vita. Dopo i primi tempi segnati da stenti, difficoltà e lavoretti di poco conto che tutti i membri della famiglia si prodigarono a cercare, Charles, considerato l’intellettuale di famiglia, venne avviato agli studi. Divenne medico, ma non esercitò mai la professione, anche a causa della improvvisa morte del padre. Non esitò infatti a mettere da parte il camice per formare con il fratello Giuseppe, già avviato all’attività di costruttore, una impresa edilizia e terminare la costruzione di palazzi avviati insieme al capostipite. L’impresa conobbe un’impennata, le loro costruzioni si susseguirono una dietro l’altra a ritmo impressionante segnando un’ascesa industriale vertiginosa, come vertiginosi erano i primi grattacieli ad uso abitativo edificati a New York City. L’avvento del cemento armato aiutò i Paterno che poterono costruire edifici fino a dieci o dodici metri di altezza, senza muri troppo spessi alla base. Fu così che uno dopo l’altro cominciarono a svettare questi altissimi palazzi, fino a toccare quasi il cielo, proprio come le punte più alte delle indimenticabili Dolomiti lucane. Ad uno di questi famosi grattacieli diedero il nome di Lucania, a suggellare l’amore patrio, altri furono battezzati con nomi diversi: “Il colosseo”, situato a Riverside, 14 piani di altezza per 16 appartamenti di 12 camere ciascuno; “Acqua vista” e “Monte vista”, due enormi fabbricati di 20 piani ciascuno; il grattacielo “The Paterno”, che domina Riverside ed è formato da 14 piani e tre ascensori.
I Paterno riuscirono ad intercettare i bisogni della middle class e ne contemperarono anche i gusti, dando un tetto a 28mila persone in settantacinque palazzi nel West Side. Un successo determinato dal carattere deciso e visionario di Charles, un abile imprenditore, un uomo dell’azione ma anche dell’attesa, che seppe gestire la crisi dell’edilizia del 1907 e quella della finanza del 1929. Insieme al fratello e ai cognati, tra cui ricordiamo Anthony Campagna da Castelmezzano, diede vita alla “Paterno e McIntosh”, poi alla “Paterno & Sons”, e successivamente alla “Paterno Brothers Construction Company”. Su ogni palazzo da loro costruito apponevano la firma: “P” per Paterno, “PB” per Paterno Brothers, “JP” per Joe Paterno. Fu dunque un lucano d’America che sapeva aspettare il momento propizio per i propri affari, non rinunciando alle proprie ambizioni, mantenendo un rapporto di fiducia con i suoi collaboratori con cui manteneva ottimi rapporti e cui, spesso, dispensava anche consigli di carattere medico. La lungimiranza di Charles non si fermò alla mera costruzione dei grattacieli, lui sapeva esprimere il gusto per il bello e le comodità. Importò dall’Europa modelli abitativi prima di allora sconosciuti: il condominio e la casa di proprietà, introducendo per primo nuovi sistemi di vita.
Più che di ambizioni, però, sarebbe più giusto parlare di sogni perché Charles era anche un grande sognatore, un uomo, come scrive Cantore, che aveva “voglia di infinito”. Il castello che costruì sull’Hudson
ne fu la dimostrazione. Innamoratosi di una nobildonna di origini olandesi più grande di lui, divorziata e con un figlio, Minnie Minton Middaug, realizzò il loro sogno d’amore. Costruì sul punto più alto di Manhattan, con una vista mozzafiato sul fiume Hudson e sulla costa orientale del New Jersey, un castello in autentico stile medievale (foto 12): quattro torri merlate di marmo bianco e un imponente muro di cinta in pietra. All’interno delle mura sorgeva un pergolato sorretto da duecento colonne, un giardino d’inverno, diciassette serre, una piscina olimpionica, la sala del biliardo, un tunnel sotterraneo e una cantina con annessa fungaia. Nel castello c’erano sette pianoforti, un organo a tremila canne che con un sofisticato congegno elettronico diffondeva ogni mattina musica in tutto l’ambiente, un camino senza canna fumaria. Più di trenta le persone impiegate, a vario titolo, nel castello.
Coronato un sogno, eccone un altro. Maturò l’idea di offrire ai non milionari case da milionari, dotate di ogni necessità e che soprattutto rispondessero al concetto di bellezza. Nacque la città-giardino, un nuovo modo di intendere la vita sociale americana. Con vista sull’Hudson, sulle Palisades e a ovest su Bennet Park, sorsero undici palazzine dotate di aree comuni, servizi e giardini, facciate in pietra irregolare, archi gotici e tetti a punta come un villaggio inglese dell’epoca di Tudor (XVI secolo). Paterno si rivolse ad un architetto di giardini, Robert Crinald, per valorizzare i dislivelli e piantare rododendri e conifere. Nacque così la Hudson View Gardens (foto 13) che consentiva ai nuovi proprietari di vivere secondo un nuovo stile di vita che guardava alle comodità soprattutto della donna. Gli appartamenti erano infatti dotati di ogni comfort: fornelli a gas, assi da stiro, pavimenti in linoleum e parquet, lavastoviglie, cucine attrezzate, impianti per lo smaltimento dei rifiuti, servizio telefonico per conversazioni locali e a lunga distanza. Fu un femminista? Proprio no, ma un uomo dotato di grande sensibilità e di rispetto verso l’altro sesso.
Charles Paterno continuò ad acquistare terreni, comperò quello su cui costruì la casa della sua vecchiaia, nel punto più altro tra New York e Boston, a Greenwich. Demolì il castello e al suo posto costruì cinque torri destinandole alle famiglie newyorkesi (foto 14).
Non solo cemento e mattoni, ma anche una vita spesa per la cultura. fu infatti tra i sostenitori della nascente Casa Italiana per la cultura. L’omaggio all’Italia fu una casa con tanti libri, “un centro di cultura dedicata agli studi avanzati sulla storia e la civiltà italiana, ma anche luogo di incontri, dibattiti, concerti e mostre d’arte.”6 Lui ne fu un discreto animatore, ricevette anche una medaglia d’oro da parte del re Vittorio Emanuele III e ad appuntargliela fu l’amico Prezzolini, direttore dell’Istituto, e stimatore di Charles. Al terzo piano della Casa Italiana fu allestita la biblioteca, ventimila volumi donati da Charles composta da libri e raccolte di periodici che offrivano un quadro della storia italiana dal 1861 in poi. In questa operazione l’umiltà di Charles prevalse su tutte, per la scelta dei libri si rivolse ad uno studioso tedesco, Henry Furst, amico di D’Annunzio e grande conoscitore della cultura italiana. Ciò che invece curò personalmente, fu il loro aspetto: finemente rilegati in cuoio, i libri recavano sul frontespizio da un lato la basilica di San Pietro a Roma, dall’altro la cupola del Campidoglio a Washington, al centro Dante, ai quattro angoli di nomi di grandi italiani (Leonardo da Vinci, Michelangelo, Galileo Galilei e Giuseppe Verdi), in basso a caratteri più grandi la firma di Charles Paterno.7
Cemento, libri e natura. Il terzo tassello che completa il quadro, Charles amava profondamente la natura, di qui il desiderio di circondare le sue costruzioni dal verde e di immergersi in vere e proprie oasi naturali. Le serre che costruì intorno al castello possedevano infinite varietà di fiori e ciascuno richiedeva diverse temperature e quantità di acqua. Il suo fu dunque uno stile di vita personale, connotato dal quel fiore, una gardenia, che portava all’occhiello, che “più che una civetteria, era interpretato come un omaggio alla natura, unica vera passione della sua vita”8 come scrive Renato Cantore.
Charles e Minnie ebbero un figlio maschio di nome Carlo, che diede loro tre nipotine, Carla Patricia e Mina, oggi custodi di questa grande storia che contraddistinse l’America dei primi anni ’30. Il 30 maggio del 1946 Charles Paterno morì mentre si trovava con il cognato in uno dei più esclusivi circoli sportivi della zona. Andò via lasciando in sospeso tanti sogni tra cui la “Paterno Tower”, l’edificio più alto del mondo, una torre di cento piani, più alta della Tour Eiffel, da costruire nel distretto residenziale del New Jesey. A ricordare la mirabile epopea di Charles Paterno, oltre agli edifici disseminati nel centro di New York, c’è un angolo particolare, il “Paterno Trivium”, un piccolo grazioso giardino posto nel bel mezzo di un incrocio, circondato da biancospini e bacche selvatiche e al centro tre panchine di ferro battuto disposte a semicerchio. Un modo per fermarsi e guardare il miracolo compiuto da un lucano in America. (E. B.)
Ringraziamenti
Domenico Cavuoti, sindaco di Castelmezzano,
Renato Cantore, giornalista autore del libro Il castello sull’Hudson. Charles Paterno e il sogno americano, Rubettino editore, 2012.
Note
1 F. S. NITTI, La nuova fase della emigrazione d’Italia, discorso pronunziato per l’inaugurazione solenne dell’anno accademico nella R. Scuola superiore di agricoltura in Portici il 21 nov.1896, premiato stabilimento Tip. Vesuviano, Napoli 1897, pag. 6.
2 E. CICCOTTI, L’emigrazione, in: S. M. ROMANO (a cura di), Storia della Questione Meridionale, Pantea. Palermo 1945, pag. 293.
3 F. S. NITTI, op. cit.
4 Registro degli atti di matrimoni, numero d’ordine 19, conservato presso l’Archivio del comune di Castelmezzano.
5 La Basilicata nel mondo, rivista mensile illustrata, diretta da Giovanni Rivelli, anno 1924, pp.223-227; anno 1925 pp. 108-111; anno 1926 pp. 369-375; anno 1927 pp. 181-189 e 282-284.
6 RENATO CANTORE, Il castello sull’Hudson. Charles Paterno e il sogno americano, Rubettino, 2012, p. 87
7 Ibidem, p.91
8 Ibidem, p. 108